Tra le sue eredità, la capacità psicologica di rappresentare una personalità attraverso il ritratto (riflessioni a margine della mostra tenutasi a Milano)
Giacere imbambolati e storditi dalle suggestioni perturbanti della pittura di Domínikos Theotokópoulos, El Greco: è una condizione passionale che abbiamo vissuto nelle sale del Palazzo Reale di Milano come era successo alcuni mesi prima al Kunstmuseum di Basilea, dove Carmen Giménez aveva organizzato una mirabile ricostruzione del modo in cui Pablo Picasso aveva attinto al lavoro dell’artista vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Così, a Roma, possiamo vedere l’Annunciazione ai Musei Capitolini; tra Modena e Bologna abbiamo invece alcune opere del periodo italiano, già presenti nell’esposizione milanese. Recentemente il Centro Botín di Santander in Spagna ha proposto un confronto tra la Adorazione dei pastori dipinta negli anni Settanta del XVI secolo e una interpretazione dell’artista vivente Tino Sehgal, il quale ha indugiato sulla figura del bambino. È necessaria una tale attualizzazione per comprendere il lavoro del nostro pittore che ha lavorato secoli fa in regioni europee distanti e interconnesse?
“Non possiamo nascondere l’inquietudine di un disagio sottile ma intrigante”, scriveva Lionello Puppi nel 2015, a proposito della carriera italiana del pittore cretese. “Chi era, insomma, Domínikos Theotokópoulos? Se la realtà dell’uomo si rende, peggio che sfuggente, inafferrabile, anche i contesti concreti, all’interno dei quali le opere furono realizzate, sfumano in una nebbia disorientante”. Il progetto che si insediava anche nella mostra di Milano risiede in effetti in un lavoro che da anni cerca di ristrutturare percezione e conoscenza di un pittore dal destino tuttora frammentario, in vita molto apprezzato ma altresì disprezzato. Poi sepolto in una attribuzione di “stranezza” e distorsione della realtà, fu recuperato nei secoli successivi, per esempio dai romantici Théophile Gautier et Eugène Delacroix. Manet attinse al suo lavoro; Jonathan Brown, studioso della storia dell’arte spagnola antica, definì El Greco e Paul Cezanne «spiritualmente fratelli» e impegnati in una comune ricerca rispetto alla spazialità nel campo pittorico; Picasso lo tenne quale riferimento capitale.
La frammentarietà della posizione di El Greco nella storia dell’arte e nella percezione comune si articola su ulteriori fronti. In Italia, è stato “protagonista” di una falsificazione storiografica sviluppatasi lungo alcuni decenni del XX secolo, documentata dal saggio scritto per il catalogo della mostra milanese da Panayotis Ioannou e definita da Lionello Puppi «una delle truffe più sconcertanti che il pur infido mercato antiquario abbia conosciuto nello scorso secolo». Ascritto al contesto dei pittori “madonneri”, si è visto attribuire una grande quantità di quadri e il catalogo accreditato delle sue opere ha di conseguenza acquisito una dimensione volubile, con un’ampiezza di contenuto che varia per alcune centinaia di opere.
I cosiddetti “madonneri” erano pittori minori veneti di origini greche o cretesi attivi dal Quattrocento al Seicento, caratterizzati da uno stile che fondeva l’antinaturalismo bizantineggiante e il naturalismo veneziano. A causa anche della permeabilità della storiografia ai valori ideologici e all’opportunismo del regime fascista italiano, il nostro artista è stato inserito in questa congerie e ciò ha facilitato un aumento a dismisura del catalogo delle opere a lui attribuite, scivolando sulla presunta assimilabilità di alcune caratteristiche stilistiche. Con la metà del secolo scorso è iniziato un lavoro di riordinamento, ma la discussione resta viva e non serena: infatti, nel volume collegato alla mostra milanese attuale leggiamo, a pagina 36, indicazioni secondo le quali a Treviso nel 2015 la Adorazione dei pastori conservata nella chiesa di San Michele Arcangelo di San Michele del Piave viene attribuita a El Greco, allorquando il catalogo di quella mostra recita, a pagina 297: «Opera di Madonnero di maniera italiana vicino a El Greco».
La diatriba sulla produzione italiana di El Greco attinge una parte della propria difficoltà alla complessità e ambivalenza del modo di lavorare dell’artista. Nel caso specifico, la questione della matrice bizantina del suo stile è stata oggetto di discussione storiografica vivace nella quale vediamo contrapposto chi individua l’unico legame dell’artista con la propria matrice anagrafica nell’apporre una firma in greco sui quadri; e chi invece riconosce nel suo modo di lavorare una matrice stilistica propria dell’iconismo della sua regione d’origine. In effetti, il motivo per il quale noi siamo conturbati e ammaliati dalla sua pittura è collegato anche all’ambivalenza del suo modo di lavorare e al fatto che egli da una parte perseguiva i dettami del modo di dipingere frequentato a Venezia (Tiziano, per esempio) e a Roma (Buonarroti per un altro esempio); dall’altra esasperava l’insegnamento veneziano attribuendo al colore un ruolo preponderante nella costruzione della scena e, deformando lievemente le sagome, si contrapponeva al modo di dipingere del tardo Rinascimento e del manierismo visto a Roma, fino ad attaccare la pittura di Michelangelo Buonarroti. Il lavoro di El Greco ci pone in effetti di fronte a una relazione dialettica, articolata e anche di contrasto tra le esigenze espressive del pittore e la norma vigente nel sistema culturale nel quale ha vissuto; per esempio il suo modo di agire artisticamente non è diligente rispetto alle esigenze liturgiche o ideologiche della sua committenza e rispetto ai valori dominanti nei contesti nei quali operò: Creta, Venezia, Roma, Toledo. Il fallimento del suo tentativo di accreditarsi presso la corte di Filippo II di Spagna e diventare un attore importante della costruzione dell’Escorial testimonia tale dialettica: Filippo non apprezzò ciò che Domínikos gli restituì con i primi due quadri e l’artista dovette costruirsi un proprio mercato a Toledo, dove riuscì a imporre il proprio linguaggio, continuando però a incontrare reazioni negative e terminando la propria carriera in condizioni di difficoltà anche economica.
José de Sigüenza, nella sua storia della fondazione del monastero dell’Escorial, esprime in modo eloquente la compresenza di stima e di distacco che ha sempre caratterizzato la percezione di El Greco: «Di un Domenico Greco, che ora vive e fa cose mirabili a Toledo, è rimasto qui un quadro di San Maurizio e dei suoi soldati eseguito appositamente per l’altare di quei santi: non contentò sua maestà (non è un granché) perché contenta pochi, benché dicano sia di molta arte e che il suo autore sia capace, come si vede in altre cose eccellenti di sua mano».
Uno dei contributi che la carriera di questo mirabile artista ci lascia è la testimonianza della difficoltà di adeguare la propria personalità espressiva alle prescrizioni morali e ideologiche dettate nei contesti in cui egli operava e insieme l’ambizione di realizzare con i propri codici espressivi la volontà di trasmettere emozioni e di condividere con i fruitori il modo in cui la produzione artistica ci restituisce parti della realtà, della verità, della vita. La capacità “psicologica” di rappresentare una personalità attraverso il ritratto; la perizia e felicità del gioco di mani e di volti nella rappresentazione della spiritualità e dell’autorevolezza religiosa; il ruolo affidato al colore rispetto al disegno delle forme… Tanta ricchezza ci consegna la complessità della situazione espressiva nel dispositivo artistico non solo di El Greco. Ci aiuta inoltre a strutturare la nostra consapevolezza a fronte delle continue istigazioni commercialmente semplicistiche; come quando, di fronte a un’opera prodotta da un computer e venduta quale frutto di una grande perizia e manualità, il venditore propose all’avventore che non sapeva se aderire al valore espressivo rivendicato: «Don’t worry and enjoy it».