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Giorgio Morandi, una rilettura

Con la mostra milanese sullo sfondo, un nuovo sguardo sull’artista che tocca la Svizzera italiana e il suo ‘Premio letterario Libera Stampa’

Natura morta, 1938
(Milano, Villa Necchi Campiglio, FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano ETS, collezione Gian Ferrari)
27 novembre 2023
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Boccioni, De Chirico, Carrà, Sironi, De Pisis e di recente Arturo Martini, solo per citarne alcune: tutte bellissime, coinvolgenti mostre dedicate alle personalità maggiori dell’arte italiana del ‘900. Davanti al cartellone che promuove l’esposizione di El Greco a malincuore tiriamo dritto puntando subito verso le sale di Morandi 1890-1964, la completa retrospettiva a cura di Maria Cristina Bandera che si tiene al Palazzo Reale di Milano fino al 4 febbraio. Non ne rimaniamo delusi a conferma della qualità delle rassegne italiane sui loro classici moderni. Mostra impeccabile, costata molto tempo nel setacciare per tutta Italia e all’estero, seguendo “un processo altamente sorvegliato e puntuale”, come ci informa la scheda esplicativa. Austera, sobria, ben scandita, nella quale un dipinto rafforza l’altro, spesso per terne, e ogni passaggio di linguaggio pittorico viene chiaramente sottolineato. Si potrebbe lamentare una nettissima preponderanza degli oli sulle altre tecniche; ma le incisioni da sole necessitano una mostra a sé; basta allora quella sola tavola proposta nei suoi otto stati perlomeno per dare un accenno sulle qualità e peculiarità dell’incisore; e gli acquarelli, pochi che siano, dimostrano in pieno la capacità di ottenere con pochissimo il massimo. Non è quindi il caso di addentrarsi nella mostra, e un invito agli ammiratori dell’artista a visitarla suonerebbe quasi un po’ ridicolo. Prendo invece spunto da aspetti marginali che mi hanno suscitato qualche pensiero su questa rilettura dell’opera.

Riservatezza

Morandi è stato, in special modo a partire dagli anni Quaranta, artista di culto. E lo è forse ancora. Culto instillato nei letterati e negli storici dell’arte anche dalle pagine di Longhi, che di Morandi fu ammiratore e amico. Non credo che ci fosse un solo suo allievo o seguace che nutrisse qualche dubbio sulla pittura di Morandi. Si creò, insomma, a buona ragione, il mito Morandi. I ‘longhiani’ Arcangeli, Bertolucci, Bassani, Briganti, Testori, Tassi, Raimondi, Contini, Isella, arrivando fino a noi, con Giorgio Orelli insieme a tutta la lunga schiera di artisti di quella ‘generazione di mezzo’ e oltre (Bolzani, Cavalli, Marioni, Salati, Salvioni, Emery, Boldini…) lo tennero in tale considerazione da far pensare che egli incarnasse quella figura di artista la cui creazione soddisfa innanzitutto le esigenze dell’artista. Sarebbe sufficiente il racconto lasciatoci da un giovanissimo Giuliano Briganti, grande storico dell’arte del Seicento italiano, in cui descrive la sua visita nell’atelier di Bologna, per darci un’idea di ciò che ha significato nel dopoguerra per gli storici e critici, ma più in generale per l’arte italiana, la figura di Morandi.

Eppure, benché la sua notorietà sia da sempre conclamata e alimentata da schiere di studiosi, si legge ancora nella scheda conclusiva che per la sua “effettiva comprensione … sarebbe stato necessario un cinquantennio di studi e ricerche”. Cosa che risulterebbe difficilmente comprensibile se non fosse in parte da attribuire alla riservatezza, alla leggendaria ritrosia dell’artista. In parte, diciamo, perché d’altro canto ci fu chi ne fece il ritratto di un classico sui generis, un artista fuori dal contesto, volutamente estraneo, o al di sopra delle esperienze e dei dibattiti dell’arte del suo tempo. Una visione a lungo predominante. Con questa ‘credenza’ la mostra milanese vuol fare i conti, ma in maniera equilibrata, soppesando i vari aspetti della sua opera, “classica e moderna, esistenzialista e romantica, realista e astratta”. Sì, Morandi va riletto anche alla luce dei dibattiti e dei nuovi linguaggi che si sono susseguiti senza sosta a partire dall’inizio dello scorso secolo.

Rottura

C’è un fatto emblematico che riassume al meglio questa difficoltà di leggerne l’opera. Nel 1964, dopo lunga incubazione, venne edita un’amplissima monografia su Morandi a firma di Francesco Arcangeli, allievo prediletto di Longhi. La pubblicazione di Arcangeli provocò l’irreparabile rottura tra l’artista e l’autore, facendo sprofondare quest’ultimo in una grave depressione. Il libro ebbe notevole eco e suscitò dissensi e consensi. Detto in parole semplici, toglieva Morandi dalla torre in cui era stato rinchiuso per porlo non solo a confronto, ma in dibattito con i fatti artistici salienti del suo tempo. Sottrarlo da questa sfera di indisturbata classicità per farne sentire l’umanità, il flusso sottile ma continuo che scorre nella sua pittura tra arte e vita; un flusso calibrato, sublimato da quella sua pittura tonale, così moderna al cospetto di tanti modernismi. Lo scritto su Morandi, maturato lungamente alla luce della sua militanza nella critica d’arte, è un esempio insuperabile di partecipazione umana del critico all’avventura di un artista. Non a caso, chi l’apprezzò, vedi il poeta, allievo di Longhi, Attilio Bertolucci, ne parlò come il più bel libro tra i tanti di narrativa e poesia che aveva letto nell’ultimo anno, senza nulla togliere al suo valore di critica d’arte. Arcangeli non solo aveva tirato i fili tra Morandi e i maestri della sua generazione, ma anche con quella successiva, asserendo che l’arte di Morandi aveva tanto da dire “con immersione anche più intera nella complessità dell’arte” pensando a Fautrier o a Tobey.

Arcangeli forse, per partito preso, si spinse troppo in là, e questo forse per un innato senso di misura l’artista non lo poté mai accettare. Ma effettivamente la generazione di mezzo che dal formalismo neocubista o astrattista passò all’informale (per Arcangeli più appropriatamente ‘Ultimo naturalismo’) lo accolse come un testo fondamentale. Due anni dopo la pubblicazione del libro ad Arcangeli venne conferito il prestigioso ‘Premio letterario Libera Stampa’ (e l’accento va messo su quel “letterario”), accompagnato per merito di Piero del Giudice (suo allievo) ed Eros Bellinelli dalla mostra ‘Natura e Uomo’ di Villa Ciani. Non è certo un dettaglio rilevare che una buona parte delle quattro pagine dedicate al Premio dal giornale promotore erano incentrate proprio sullo studio morandiano di Arcangeli, con gli articoli di totale adesione scritti da Bertolucci e Roberto Tassi. E a quella lettura di un Morandi in silente ascolto dell’esistenza, quel sentire discreto in sintonia con la sua vita di ‘piccolo borghese’, fu legatissimo anche Giorgio Orelli, che lo preferì a tutti gli altri moderni: “Morandi – osservava il poeta - assiepa simboli concretissimi sull’orlo di un tavolo che diventa l’orlo dell’abisso”.

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