Fino al 19 novembre, al Museo di Winterthur, una mostra su uno dei massimi iniziatori (se non l’inventore) del Romanticismo tedesco in pittura
Il Kunst Museum di Winterthur, fino al 19 novembre, espone una breve ma anche intensa rassegna – la prima in Svizzera – sull’opera del grande pittore tedesco Caspar David Friedrich, nato in Pomerania nel 1774 e morto a Dresda nel 1840. Da sempre considerato uno dei massimi iniziatori (se non l’inventore) del Romanticismo tedesco in pittura, questa mostra e relativo catalogo si prefiggono di ricostruire il contesto dentro cui nasce l’arte di Caspar David Friedrich per rapporto alla tradizione della pittura di paesaggio. Non entreremo nel merito della sua biografia, spesso solitaria e sofferta, che ha avuto grande incidenza sulla sua arte, per puntare dritto sulla pittura.
Prima di Friedrich la pittura di paesaggio che tanto era cresciuta e tanto interesse aveva destato in artisti e committenti a partire del Cinquecento, sia al Sud come al Nord dell’Europa, aveva dei tratti distintivi che, sostanzialmente, la connotavano in duplice modo. Per lo più fungeva da fondale, consonante o dissonante, posto dietro a una raffigurazione o a un evento – storico, religioso, allegorico… – che, in scala maggiore, si svolgeva in primo piano e il paesaggio contornava; oppure, secondo il gusto classico-arcadico o pittoresco, diventava spazio ampio e dilatato, tirato fortemente in primo piano ma che si estendeva poi all’infinito fuoriuscendo dai confini del quadro, in cui viandanti, pastori e contadini al lavoro nei campi, animali e greggi, campagne inondate di luce e monti lontani punteggiati da casolari si integravano reciprocamente: agognato ideale di vita, laboriosa e serena, in armonia con la natura, nel susseguirsi dei suoi ritmi e delle sue stagioni: da Poussin a Claude Lorrain e Paul Brill.
Lì quanto si narra e dipinge è sempre direzionato verso chi osserva, come se – a gradoni prospettici – dalle profondità del dipinto tutto salisse in crescendo verso lo spettatore, fino magari a coinvolgerlo. In non pochi suoi quadri Caspar Friedrich rovescia invece radicalmente l’impianto e butta all’aria le buone norme della tradizione accademica in base alla quale i personaggi non girano la schiena all’osservatore e la luce li illumina frontalmente o al più di taglio. Ne è prova immediata un dipinto, assolutamente inusuale per l’epoca, come ‘Lo spuntare della luna sul mare’, del 1822, con i personaggi posizionati a distanza, sulla linea mediana del dipinto, perché non ingombrino la scena, per di più di schiena e in controluce: come a dire che ciò che conta non è il di qua in primo piano (secondario e privo di significato), ma il di là, l’oltre posizionato sul fondo: non il giorno ma la notte quando, dietro le brume del giorno, sta per accendersi la luce tremula di quella luna che potrebbe rischiarare il buio consentendo, forse, più agevole viaggio a quei navigli non ancora giunti in porto.
Che si tratti davvero e unicamente di navigli? Caspar Friedrich è abilissimo nel far nascere domande o nel creare immedesimazioni da parte dello spettatore che si trova in terza posizione dietro i personaggi e non può che interrogarsi sul perché siano tanto assorti e silenti di fronte a quella luna che sale e a un mare piatto, senza alito di vento. La sua pittura ci inchioda lì: maestro com’è non solo di strategia comunicativa, capace cioè di toccare punti sensibili e scoperti dell’osservatore semplicemente servendosi di alcuni elementi apparentemente descrittivi, ma anche di strategia compositiva che ti porta nel punto nevralgico del dipinto. Si noti infatti come il dipinto abbia una linea direzionale che, tramite la sommità dei massi, ci porta dall’angolo basso a destra fin dentro il cuore dell’opera: i personaggi, la luna e i navigli immobili. Ma si noti pure come le due parti della terra in ombra e della luce in cielo siano contenute e riassunte in due ampi semicerchi contrapposti che trovano il loro punto di congiunzione nei tre personaggi che fanno da legante: nel silenzio, nelle sensazioni, forse anche negli interrogativi o nelle attese, che percepiamo in loro. Ma che in verità sono solo le nostre. “Se un quadro ha un effetto sull’anima dell’osservatore, se mette la sua mente in uno stato d’animo bello, allora ha soddisfatto il primo requisito di un’opera d’arte”: così pensava e scriveva Caspar Friedrich.
Il quale non parla di paesaggi ma di ‘natura’: concetto molto più vasto e inclusivo della raffigurazione di un paesaggio. Non solo: egli non concepisce l’arte come ricerca del bello, ma come strumento in grado di produrre “effetti sull’anima” e di “mettere la mente in uno stato d’animo bello” che non è il piacevole allo sguardo, ma il ‘sublime’ che agisce sull’animo e di cui rivendicava il primato sul ‘bello’. Egli faceva suo il pensiero estetico già espresso nel 1757 dal filosofo inglese Edmond Burke: “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è fonte del Sublime: è ciò che produce la più forte emozione che l’anima sia in grado di recepire”. Lo si veda nel suo piccolo ma preziosissimo dipinto, vero orgoglio del museo di Winterthur, ‘Le bianche scogliere di Rugen’, del 1818, che fa da apertura alla mostra. Quegli uomini che si spingono sulla sommità della scogliera, fin sull’orlo del baratro, avvertono tutta la loro fragilità e piccolezza in cortocircuito con l’immensità di cielo e mare che si congiungono all’orizzonte lontano; mentre quell’esile vela che per un breve attimo attraversa il campo visivo, da un confine all’altro, altro non può che far pensare al lento ma inesorabile scorrere della vita.
Fondazione Reinhart
‘Le bianche scogliere di Rügen’, 1818, olio su tela