Il pittore perse due dei suoi figli in tenera età. Alla Fondation Gianadda di Martigny, fino al 30 giugno, un centinaio tra dipinti e lavori su carta
La Fondation Pierre Gianadda dedica ad Albert Hanker (1831-1910) una mostra incentrata sull’infanzia, tema fondante in un artista segnato dalla perdita in tenera età di due dei suoi sei figli. La rassegna si sviluppa per sezioni ed espone un centinaio tra dipinti (non pochi di Christoph Blocher) e lavori su carta che permettono di seguire la genesi di molti suoi dipinti.
Anker, si sa, è pittore amatissimo, autore di opere che fanno parte dell’immaginario collettivo, ragion per cui è considerato tra i più rappresentativi pittori del giovane Stato federale. Dopo la guerra civile, dopo la Costituzione del 1848 e la nascita dello Stato confederato, il Paese aveva bisogno di costruire la propria identità elaborando i miti fondativi della patria o un’idea comune di nazione in cui specchiarsi e riconoscersi: ritrovando le proprie radici storiche e perfino regionali, segno di una pluralità culturale, sociale e linguistica ravvisabile financo negli usi e costumi, nei modi di vestire o di costruire delle varie regioni. Ora, traducendo in pittura – come ha saputo far lui! – la vita in un piccolo villaggio della Svizzera interna, non c’è dubbio che nelle opere di Anker si senta un po’ tutti odore di casa, se non la nostra quantomeno quella dei nostri nonni e bisnonni, in una Svizzera ottocentesca e preindustriale che allora aveva assai poco di urbano ed era fondata su un’economia di sussistenza rurale e alpina. Da qui la popolarità e l’ampio successo della sua pittura che molto deve proprio alle sue raffigurazioni di bambini e che molto contribuì alla divulgazione di una comune identità nazionale.
Per la verità – com’era del resto naturale per un giovane pittore formatosi a Parigi tra il 1854 e il 1860 sotto la guida del pittore classicista vodese Charles Gleyre – la mostra parte con un excursus, poco conosciuto perché lasciato spesso in ombra e apparentemente fuori tema, concernente il primo nucleo di pitture ankeriane di natura classico-storicistica in quanto o ispirate dapprima all’antico mondo greco poi alla storia svizzera dal medioevo fino ai tempi suoi, quando accolse i soldati francesi in rotta durante la guerra franco-prussiana del 1871. Contemporaneamente, però, Anker mette pure a fuoco e dà sempre più consistenza a quello che sarà l’oggetto più sentito della sua pittura tanto che ne diventerà il tratto distintivo: la rappresentazione della vita quotidiana e contemporanea in un piccolo villaggio rurale di una non meglio identificata regione svizzera. Ma è proprio così?
Musée d’art et d’histoire, Neuchâtel (Suisse
L’hospitalité. Soldats de l’armée de Bourbaki soignés par des paysans suisses en 1871
In realtà Anker ha isolato e selezionato un mondo di affetti e di serenità, di candore e di innocenza, di anziani e bambini che si vogliono bene; “rappresenta luoghi indefiniti e personaggi come espressione di un Paese idilliaco, lontano dalle bassezze del mondo e proteso verso il futuro. Descrive una Svizzera con bambini disciplinati e artigiani laboriosi partecipi di un’attività ordinata.” Indubbiamente conta – e come! – quel che c’è e il modo in cui lo rappresenta, ma conta pure quel che non c’è di quel mondo: lo sfiancamento nei campi, lo sfruttamento del lavoro minorile, il degrado sociale e talvolta anche la violenza o la miseria, i geloni alle mani e ai piedi dei bambini durante i rigori degli inverni. Certo, con la sua pittura di indubbia qualità, Anker ha contribuito a traghettare nel mondo ‘alto’ dell’arte e della media-alta borghesia svizzera che la acquistava ed esponeva nei suoi salotti, il mondo umile dei lavoratori della terra, dei bambini che vanno e vengono da scuola a piedi nudi e con i quaderni gualciti sotto il braccio, che studiano e imparano a leggere e a far di conto, che sostituiscono i genitori curando amorevolmente i fratellini più piccoli. Per la verità ci sono anche quelli ben vestiti della media borghesia locale, che pure si vogliono bene come i primi e leggono e studiano come loro; mangiano però su tavole diversamente imbandite, ma non ci si sente dentro un giudizio socio-politico da parte dell’artista, la riprovazione morale delle disuguaglianze sociali. Più che rappresentazione di una realtà oggettiva considerata dal punto di vista socio-politico, la pittura di Anker è rappresentazione di una realtà oggettivamente diversificata che convive senza conflitti interni; di più: è proiezione di un sogno da realizzare, di un’utopica Svizzera basata sui valori della solidarietà e dell’accoglienza (da qui il significato sotteso all’excursus iniziale), sulla serena convivenza di tutte le sue parti, ciascuno accettando quel ruolo o quel ceto che il destino, o Dio, gli ha dato.
Come scrive Matthias Frehner la lotta dualistica tra i ceti non fa parte delle sue tematiche. Prima di dedicarsi all’arte, Anker ha studiato teologia per diventare pastore protestante; poi ha cambiato rotta e ha scambiato la parola con l’immagine. Ma la sua missione è rimasta la stessa: trasmettere un messaggio morale alle generazioni del suo tempo e contribuire alla loro crescita anche intellettuale. E per farlo, ha utilizzato un linguaggio pittorico accessibile e chiaro: un realismo per certi versi ancora classicheggiante che, una volta formulato, mantenne poi inalterato nel corso della sua vita. “Amo la pace più che la pittura”, diceva. Il fatto è che di fronte ai suoi dipinti non si possono mettere in discussione la qualità e la perizia di Anker come pittore: ci sono vertici in cui una natura morta o una stalla si sublimano in dipinti che tutti vorrebbero in casa; non si può quindi non riconoscergli il merito di aver messo sotto gli occhi dei borghesi anche la presenza di un mondo più umile e diseredato dagli indubbi valori morali; e neppure si può dimenticare che egli fu un tenace promotore delle istituzioni scolastiche e sociali a favore dei meno abbienti e in particolare dei bambini. A restare in sospeso è quell’altra questione che interpella chiunque se la voglia porre.