Con un percorso unico nella storia dell’arte ticinese, il pittore di Brissago raccontava l’uomo e la natura. Alla Fondazione Matasci fino al 27 agosto
È domenica. Il sole abbacinante e il prepotente frinire delle cicale disorientano e se non fosse per il Sassariente parrebbe di stare in Meridione. Il cucuzzo della montagna riporta alla realtà, a Cugnasco-Gerra dove ha sede il Deposito della Fondazione Matasci per l’arte che, fino al prossimo 27 agosto, ospita la mostra ‘Claudio Baccalà, pittore, poeta e contadino’, con 28 opere (della Collezione omonima) dipinte dall’artista brissaghese fra il 1945 e il 1975. Di Baccalà, nato a Brissago nel 1923 e morto nel 2007, ricorrono quest’anno i cento anni della nascita.
«Mite, schivo e di poche parole». Lo descrive così Mario Matasci che, per l’occasione della visita domenicale, ci fa da guida all’allestimento. L’appassionato collezionista ha conosciuto il pittore di Incella (frazione brissaghese) nel 1979, quando una mostra con le sue opere l’aveva organizzata a Villa Jelmini, a Tenero. Nel 2018, ricorda quindi Matasci, la moglie di Baccalà affida alla Fondazione all’incirca duecento opere.
© Fondazione Matasci per l’arte
Vulcano, 1948
L’introversione di Baccalà è per certi versi contrapposta al suo linguaggio pittorico, unico e di difficile rubricazione, che ha nel colore e nel movimento (che la disposizione del primo origina) la sua forza magnetica, almeno agli occhi di chi scrive. Una pittura che non è per forza immediata nella lettura – anzi alcune opere rimangono misteriose, probabilmente perché ricettacolo di una memoria d’altri tempi –, ma visivamente di forte impatto: il colore – materico, terroso e a tratti sgargiante – è steso minuziosamente con la spatola sulla superficie delle tele di grande formato; una tecnica che dà dinamismo alla composizione: l’impressione è quella di campiture in continuo movimento. Tornando al colore, lo stesso Baccalà in un’intervista raccolta da Monica Calastri affermava che esso ha “un’importanza primordiale e ogni colore ha un suo significato” utile a esprimere le emozioni, spiegando quindi che il blu è la fedeltà, verde è speranza, rosso è amore… Ma non è solo il modo, la tecnica a impressionare gli occhi. Di tela in tela, passando in rassegna i titoli (almeno quelli dati) delle opere esposte, si intuisce come la natura e l’uomo siano temi portanti della sua ricerca, alimentando un immaginario iconografico costituito di simboli, che tornano lungo il suo percorso decennale.
Anche Baccalà, definito pittore contadino, aveva una cima di riferimento, ossia il Ghiridone, che sovrasta l’alpeggio (alpe Arolgia) dove il pittore, che ancora deve scoprirsi tale, da ragazzo lavora come pastore e contadino. Quel mondo alpestre – la sua natura e le sue tradizioni popolari – è fonte del suo fare. Di là delle date estreme, Baccalà cresce in una famiglia di contadini e il suo destino pare scritto sin dall’infanzia. Ma la pittura irrompe, quando il ventenne è fra Zurigo e Basilea, dove lavora come operaio e, vinto dalla nostalgia per i suoi luoghi natii, inizia a dipingere, da autodidatta. La storia che segue è ricca di incontri determinanti che lo spronano a seguire la sua vocazione, come quello avvenuto a fine anni Quaranta con l’artista francese Jean Dubuffet, grazie al quale intesse i primi legami a Parigi e Bruxelles, dove bazzica per il milieu artistico e intellettuale. Torna in Ticino nel 1950 (stabilendo il suo atelier a Brissago) e l’anno seguente tiene la sua prima personale alla Galerie Hutter di Basilea, cui seguiranno altre mostre (per esempio l’antologica del 1997 alla Pinacoteca casa Rusca di Locarno, corredata dal catalogo curato dal critico Dalmazio Ambrosioni), esponendo altresì in numerosi musei e gallerie svizzeri e francesi. Fra i riconoscimenti, si ricorda il Premio per la pittura alla prima Biennale der Schweizer Kunst, del 1973, al Kunsthaus di Zurigo.
© Fondazione Matasci per l’arte
Apollo, 1971
Guardando alla storia dell’arte ticinese dagli anni Quaranta in avanti, il percorso di Baccalà è avulso dalle cosiddette correnti che caratterizzavano il contesto artistico di quei decenni, una su tutte l’informale (anni 50-60). Ciò è determinato dalla formazione da autodidatta e dallo sviluppo di un suo peculiare linguaggio che non è molto distante da ciò che si definisce art brut (concetto coniato nel 1945 proprio da Dubuffet, per indicare l’arte fatta da non professionisti, insomma non “scolarizzata”). Le sue opere sono spontanee e primordiali e, coll’incedere del tempo, il pittore esprime una figurazione sempre più assoluta, con forme lineari e semplici, dai colori spessi. Chiudiamo con le incisive parole del critico Claudio Guarda: “Quella che Baccalà mette in scena è una antica cosmografia visionaria e totalizzante, risolta in modulazioni linguistiche che richiamano anche certe pitture a tacche degli aborigeni d’Oceania. Ne deriva lo sfondamento su un tempo lontano e primordiale, dove uomo e natura ancora dialogano e si confrontano, dove la poesia dei colori e delle forme vuole essere auspicio di un rinnovato e perenne specchiamento dell’uomo con la natura”.
L’esposizione, accompagnata da un agile catalogo (Quaderno 42), è visitabile di domenica, dalle 14 alle 18 (www.matasci-vini.ch).
Ti-Press
Claudio Baccalà 1923-2007)