Ritrovare negli spazi del Basel Social Club quell'intelligenza cantata da Cochi e Renato
La prima esperienza vissuta a Basilea, nei giorni della fiera che domina il sistema dell’arte, è l’iniziativa definita Basel Social Club con evocazioni cubane ben lungi dalla configurazione paesaggistica basilese. È una piattaforma impiantata da «un collettivo di artisti, galleristi e curatori con l’intenzione di creare spazi sociali per l’arte». Strano, perché ci si aspetterebbe che l’arte sia già di per sé un dispositivo sociale e ci si chiede quale sia il motivo reale che spinge operatori spesso attivi nella fiera Art Basel a riproporsi altrove, in questo caso uno spazio dove si produceva maionese.
Annoto alcuni appunti di questa esperienza che sembra insieme organica e alternativa al sistema della fiera. Tra i tanti nomi annunciati, riconosciamo quelli di gallerie che sono delle aziende capitalistiche multinazionali, di artisti protagonisti del sistema dell’arte. Gli spazi allestiti sono per lo più non allestiti e le proposte sono appoggiate, appese in modo posticcio, distribuite sui muri o sui supporti o sui pavimenti in modo apparentemente, forse volutamente, sciatto ed è difficile comprenderne il motivo: forse perché le opere dovrebbero essere così forti da imporsi nonostante siano sparpagliate? Forse perché sono così fragili da non avere il coraggio di proporsi come tali e preferiscono cercare forme di mimetismo con uno spazio ex industriale? O forse l’ambientazione post-, ex-, vuole dire che si tratta anche di una post-, ex- produzione artistica? Di cosa si tratterebbe, allora?
In uno degli spazi, file di vecchi sedili di aeroplano si alternano a banchi da chiesa. In un altro, un carretto dei gelati è circondato da sedie di vari colori; un cartello appoggiato per terra richiama alla “normalizzazione di un mondo dell’arte meno gerarchizzato”. Eppure, il sistema fieristico della città è sempre più gerarchizzato e Basel Social Club sembra essere una costola di tale sistema. Ai muri ci sono cose colorate di dimensione variabile, alcune di 3 x 2 cm (1’100 euro), altre più grandi, per esempio 40 x 50 cm (28mila dollari). Scendendo una scalinata, appese al muro ci sono travi di metallo da costruzione, non capisco se si tratta di opere o di residui industriali; in ogni caso ci segnalano come, se già l’estetica della trave ad H di Jannis Kounellis aveva saturata la nostra disponibilità, qui siamo oltre.
Il mio viaggio verso Basilea è stato accompagnato da due dischi di Cochi e Renato. Per reagire ai casi della vita, avevo deciso di ascoltare la canzone dedicata all’intelligenza della gallina e da lì mi sono ritrovato ad ascoltare ripetutamente due dischi e a riconsiderarne i contenuti, il modo di costruire il tessuto musicale e la strampalatàggine dei testi che va ad attanagliarsi alla realtà abbastanza per caso attraverso figure come quelle evocate in Malpensa («è molto bello… è tutto in piano … è fatto a mano … piace all’aeroplano») o nella canzone intelligente, prodotta dalla casa discografica adiacente e buttata al pubblico sottostante tramite un cantante vestito da deficiente che piaccia alla gente, spiegando un po’ di tutto e un po’ di niente.
Negli spazi del Basel Social Club ritrovo quella stessa «intelligenza», quel disporre gli oggetti un po’ a caso e un po’ a modo in ciò che c’è, così com’è.
Penso anche al lavoro seminale di molti artisti, decenni fa e al punto di strampalatàggine in cui siamo. Mi chiedo, per esempio, forse indotto dalla sensazione melmosa di ciò che sto vivendo, dove siamo rispetto al lavoro di Piero Manzoni definito Merda d’artista; ho la sensazione di uno iato. Lì vi era l’idea, il concentrato di allusione anche poetica, anche filosofica attraverso qualcosa che non poteva essere concretizzato o verificato se non distruggendo l’opera che è una scatola sigillata con una etichetta e, quindi, uscendo dal seminato; il nulla era così concentrato e contemporaneamente evocato da acquisire una forte densità. Qui la concentrazione e la densità sono per cumulazione distributiva, cioè la materia che lì non era possibile vedere né esperire qui è spalmata ovunque come una maionese, industriale.
Un giovane operatore mi spiega che si sta tentando di rendere l’arte accessibile a tutti: gli chiedo se ha visto cosa c’è e mi risponde che è stato troppo preso dalla dimensione relazionale e sociale e non ha visto niente. Gli faccio notare che, rispetto a ciò che viene proposto nei padiglioni della fiera, si tratta di altra roba, cioè: non è lo stesso prodotto che qui abbiamo «accessible to all and free of charge». Un’altra immagine mi rigurgita: il dottor Stranamore a cavallo della bomba atomica, la fusione di cinismo e autolesionismo.
Dopo una giornata trascorsa nei padiglioni di Art Basel vedo la mostra dedicata a Lorenza Longhi e a Olivier Mosset dalla galleria Weiss Falk; spazi desueti occupati in modo preciso e appropriato. Mi chiedo in cosa consista la differenza rispetto all’altra esperienza. Mi aggrego a un gruppo di giovani che vogliono trascorrere la serata al Basel Social Club, «il posto più figo dove si mangia benissimo». È una bolgia e dopo qualche minuto scappiamo via, ci rifugiamo a mangiare un buon hamburger, il cibo abbassa la tensione nervosa e si discute. Mi dicono che, d’accordo, non c’è niente di interessante, ma è effimero, è il mercato, va venduto e quindi va bene così. Io rispondo citando una serie di artisti che sono in vendita e oltremodo effimeri: cosa c’è di più effimero che distruggere una scultura con la pittura, bruciare una plastica, piantare degli alberi? Per dire: il punto è come operare nel mercato con moneta buona e non con moneta cattiva. Mi dicono di no, quello non è effimero. Non so, però ho la sensazione che ci sia da riflettere su dove allocare i puntatori dei nostri attributi. Per me il campo di sterminio, l’arco di trionfo, l’obelisco della conquista non sono effimeri. È effimera l’architettura della cattedrale di Chartres e soprattutto lo sono gli armonici spaziali generati dai contrafforti.