Si apre domenica 24 ottobre la retrospettiva di Mendrisio dedicata all’artista tedesco
Prima della conferenza, affollatissima, c’è una ‘M’ di cui riferire, la nuova veste grafica del Museo dell’arte, consonante azzurra che campeggia all’entrata; dentro, la retrospettiva di A.R. Penck (1937-2017), pseudonimo di Ralf Winkler, firma ricavata dal nome di un geologo. In mostra a Mendrisio sono 40 dipinti, 20 sculture in bronzo, una settantina tra opere su carta e libri d’artista. Da domenica fino al 13 febbraio 2022, quanto visibile riassume il percorso di uno degli artisti tedeschi più importanti della seconda metà del Novecento. A curare l’esposizione, il direttore del museo Simone Soldini, la collaboratrice scientifica Barbara Paltenghi Malacrida e Ulf Jensen, esperto penckiano, curatore del catalogo ragionato, colui che «lo sta facendo diventare un classico del Novecento». Parole di Soldini, che nell’incontro di presentazione s’incarica d’introdurre – con alle spalle ‘How it works’ (Come funziona, 1989), una delle opere-simbolo dell’intera proposta assieme al panoramico e gigantesco ‘The Battlefield’ (340x1022 cm) – la figura di un artista nato nella Germania dell’Est, sempre artisticamente in lotta contro il realismo imposto, e rimastovi a lungo per l’incrollabile fede in un Comunismo non inteso come regime.
«All’età di 6 anni, Penck assiste alla distruzione di Dresda; a 22 vede nascere il muro di Berlino e deve dire addio ad amici e colleghi che vanno a Ovest. Non può non vivere quell’uragano di eventi», riassume Soldini, fissando l’imprescindibile punto di partenza dal quale si dipana la storia umana e artistica. Tra gli ‘ascoltati’ dalla Stasi prima, a causa delle opere fortemente legate alla situazione socio-politica, costretto dalla stessa ad andarsene poi, Penck migrerà a Ovest nel 1980, quando oltreconfine è già considerato un protagonista della scena pittorica internazionale.
Storia affascinante e complessa quella di Penck, che a un certo punto della vita ‘scarica’ Rembrandt e Picasso per nutrirsi di scienza, filosofia, politica e costruirsi quella «armatura teorica» (Soldini) che gli permetterà di resistere; legge da Kant a Newton, di psicologia e cibernetica, di algebra e teoria dell’informazione e nelle sue opere appaiono simboli e figure stilizzate che sublimeranno nella celeberrima Standart. Il modello si affina, trasportato anche nella scultura, fino alla crisi del 1973, quando l’artista si accorge che la tecnica non attecchisce; firma dipinti sotto pseudonimo, si tuffa nel free jazz di Dresda come batterista, prima di essere accompagnato alla frontiera il 3 agosto del 1980 in direzione Colonia, tenendo per sé il vocabolario Standart ma anche il carattere sociale del suo lavoro e, in un ravvivarsi di colori, rinascendo. Nel 1984 la Biennale di Venezia gli rende omaggio con una personale; nel 1988 altrettanto fa la Neue Nationalgalerie di Berlino; la retrospettiva di Mendrisio, quattro anni dopo la sua morte avvenuta a Zurigo, offre ora una panoramica più ‘inclusiva’: «Il materiale a oggi presente era quasi interamente in lingua tedesca», spiega Paltenghi Malacrida. «Il nostro catalogo diventa dunque strumento critico del fenomeno Penck aperto al mondo italofono, una nuova prospettiva dalla quale indagarlo, vista l’impostazione anni 60 e 70 limitata al solo linguaggio segnico e quella anni 80, generalista».
How it works (Come funziona) 1989 - © ProLitteris, Zürich
Alla ricerca di una forma espressiva non contaminata c’è stato, come detto, un Penck musicista. Il 19 dicembre alle 17, a questo proposito, Riccardo Fioravanti (contrabbasso), Dado Moroni (pianoforte), Fabrizio Bosso (tromba) e Jeff Ballard (batteria) svilupperanno un singolo pensiero musicale ognun per sé confrontati alle opere di Penck, per poi riunirsi nel salone del Museo per un concerto nel quale confluirà l’individualità. E in nome dell’immediatezza dell’artista, «forse nessuno meglio dei bimbi potrà coglierla senza filtri retorici», aggiunge la curatrice, introducendo le attività didattiche per bambini e ragazzi delle scuole che verranno calati nel percorso espositivo tramite giochi e confronti con le opere in mostra.
‘A.R. Penck’, la mostra, esce da un’incubazione di 24 mesi. «Abbiamo avuto i primi contatti con Michael Werner più di due anni fa» spiega Barbara Paltenghi Malacrida alla ‘Regione’. «Il gallerista ci aveva avvisato: “Sappiate che state entrando in un mondo molto difficile”. E infatti, ciò che colsi di Penck due anni or sono è niente rispetto a quel che lui è stato. Serve possedere un substrato ideologico, culturale, filosofico che non appartiene alla nostra cultura. Guardiamo a ‘How It Works’, per esempio, dal punto di vista delle favole di Esopo con le quali siamo cresciuti, forma culturale che porta necessariamente a una morale: mi sono resa conto che si tratta di un limite leggendo un’intervista di Penck nella quale diceva di come la metafora non gli interessasse, di come fosse decadente, di come l’immagine valesse come tale e non sottintendesse altro. Penck rivendica il diritto di non rappresentare nulla».
Tornando ai bambini: «Il primo pensiero avviene per immagini, non a parole. Penck s’ispira alla segnaletica stradale, linguaggio che non presuppone spiegazioni, trasposizione di un concetto attraverso un simbolo». Immediatezza alla quale non siamo più abituati: «Scattiamo selfie pensando che siano il nostro ritratto. Non a caso, quando Penck si autoritrae, contro la teoria del rispecchiamento su cui lo stato socialista basava il concetto di arte, usa la faccia di un altro».
Standart, 1969 (© ProLitteris, Zürich)