Due percorsi esistenziali e artistici ricchi e tormentati in mostra al Museo comunale d'arte moderna di Ascona da domenica 20 settembre al 10 gennaio 2021.
La mostra dedicata dal museo di Ascona ad Alexej Jawlensky e a Marianne Werefkin è strutturata su due solchi di fondamenta: la storia di una donna e di un uomo che costruiscono insieme una parte della propria biografia e generano un connubio esistenziale che sfocia nella duplice biografia artistica; lo sviluppo di due percorsi artistici intrecciato, interdipendente e caratterizzato da ripetuti avvicinamenti e distanziamenti. Si tratta di due percorsi ricchi quanto tormentati che Mara Folini ha presentato mantenendo come puntatore di riferimento la personalità, la libertà, la responsabilità e il destino di Marianne Werefkin, da giovane rampolla di una famiglia aristocratica all’interno della quale viene educata alla coltivazione della propria libertà di donna artista e al rispetto per se stessa; al ruolo designato di 'Rembrandt russa' e quindi riferimento artistico e culturale per le generazioni che si affacciano alla carriera; a protagonista di una famiglia allargata che si costruisce anche attraverso migrazioni da un paese all’altro; ad animatrice di un importante salotto a Monaco di Baviera; a transfuga dalla Germania fino ad Ascona e fino a essere oggi indicata come la responsabile della nascita del museo della città.
In tal modo il progetto della mostra ci aiuta ad affrontare questioni diverse e distinte attraverso le quali noi possiamo accrescere la nostra consapevolezza e anche i nostri interrogativi a proposito della relazione tra pittura, verità, missione e sociale dell’artista, opzioni possibili per la rappresentazione della realtà. Gli stimoli offerti ci orientano peraltro anche a considerare questioni importanti della storia della cultura europea: la definizione del concetto di solidarietà sociale all’interno di una coppia e di una famiglia non canonica; le questioni della dipendenza istituzionale della moglie dal marito e della costruzione della propria professionalità di artista nel caso di una donna che deve vivere del proprio lavoro. Tali questioni si intrecciano con l’esigenza, da parte di Marianne Werefkin, di lavorare a un’arte per il popolo e sul popolo emancipandosi dalle costrizioni della tradizione accademica e dedicandosi al tentativo di superare tali tradizioni nel tentativo d'individuare modalità possibili attraverso le quali l’artista possa esprimere la propria soggettività.
Con l’incontro, nel 1892, tra i due artisti le questioni fino a qui accennate si reificano nella strategia, nel lavoro tecnico, nelle scelte esistenziali e poetiche reciproche. Ecco che nel corso del tempo Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky, talvolta insieme talvolta distanziando la propria rispettiva modalità operativa, lavorano a ciò che oggi noi vediamo esposto nelle sale della mostra. Rispetto dunque al progetto scientifico e alla comprensione del portato di tale progetto la mostra va intesa come la sommatoria e la intersezione tra l’allestimento, il catalogo, le conoscenze che possono essere acquisite a corredo dell’esperienza possibile nelle sale del museo. La lettura del catalogo quindi è altrettanto importante della visita nelle sale e dell’osservazione dei quadri. Ci consentirà per esempio di sottoporre al vaglio alcune affermazioni con le quali Mara Folini ha voluto delineare un contesto teorico all’interno del quale i quadri vanno temprati. Ha parlato della crisi del linguaggio che nell’esperienza di Marianne Werefkin si affianca alla crisi di genere che la induce a smettere, per un periodo, di dipingere, convinta che solo un artista maschio possa avere la forza di costruire qualcosa di nuovo e motivata inoltre dal consapevole impulso di non creare ostacoli a lui. Un altro spunto viene dalla convinzione di Marianne Werefkin che Mara Folini ha espresso in questi termini: «L’arte è filosofia, non è un semplice grido del cuore», mentre nel caso della produzione di Alexej Jawlensky siamo di fronte a una «espressione più vibratile concentrata sui colori». Un altro spunto di confronto ci viene indicato nella «emozionalità sociale che porta a un appiattimento delle forme, a una ricerca della bidimensionalità e al rifiuto di concentrarsi sull’oggetto pittorico in sé o di orientarsi verso l'astrazione», caratteristiche del lavoro di Marianne Werefkin. Mentre nel caso di Alexej Jawlensky siamo di fronte a un «espressionismo più sintetico» e in mostra vediamo sia quadri astratti, sia 'teste astratte'.
Di tutto ciò nelle sale del museo abbiamo una serie di esempi molto interessanti sia per prendere atto della grande mutazione espressiva che ciascuno dei due artisti ha avuto nel corso della propria biografia pittorica, sia per esperire come i due artisti abbiano vissuto i periodi di maggiore prossimità e quelli di maggiore distanziamento reciproco. Ecco dunque il (a mio parere) magnifico tavolo nero di Alexej Jawlensky nella prima sala e poi la piccola teoria di quattro quadri astratti nei quali il contenuto della pittura si è ormai svuotato e la campitura di colore è trasparente. Così, nel caso di Marianne Werefkin, passiamo dalla ritrattistica degli ultimi decenni dell’Ottocento, ancora impregnata di un impulso o meglio di un anelito veritiero carnoso, verrebbe da dire sociale, al favolismo quasi pop talvolta più tetro e talvolta più leggiadro degli ultimi periodi. E poi abbiamo i punti di reciproca condivisione come quello del doppio autoritratto che fa da effigie alla mostra oppure il modo in cui l’autoritratto di Marianne Werefkin composto nel 1893 si confronta con l’autoritratto con cappello di Alexej Jawlensky eseguito nello stesso anno e con l’autoritratto con cilindro del 1904.