Ticino

Corte d’Assise di Como, al via il processo Mazzotti

La giovane milanese morì dopo aver passato quasi un mese in una buca in cui non poteva stare in piedi. Tra i suoi carcerieri un contrabbandiere ticinese

Una storia buia
25 settembre 2024
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Si è aperto nel pomeriggio in Corte d’Assise a Como l’ultimo atto di una storia buia. Quello della morte di Cristina Mazzotti, studentessa milanese 18enne, rapita il 1° luglio 1975, quasi mezzo secolo fa a Eupilio, sopra Erba, e uccisa dai suoi carcerieri. Tra questi Libero Ballinari, contrabbandiere ticinese, arrestato dalla polizia di Lugano dopo che aveva cercato di versare, in una banca di Ponte Tresa, una sessantina di milioni di lire, provenienti dal riscatto (un miliardo e cinquanta milioni di lire) pagato per la liberazione della donna, e sino allora la persona più giovane sequestrata dalla ’ndrangheta in Lombardia. A Ballinari si deve il ritrovamento nella notte del 1° settembre 1975 del corpo di Mazzotti, in una discarica di Galliate (Novara). Un processo che si pone l’obiettivo di ricercare la verità su chi ha materialmente messo a segno il sequestro di Cristina Mazzotti. E soprattutto avere la conferma che a organizzare il sequestro era stata la ’ndrangheta.

Alla sbarra tre narcos ultrasettantenni

Alla sbarra ci sono tre narcos ultrasettantenni: Demetrio Latella, 70enne, bandito reggino, già condannato all’ergastolo e con alle spalle 32 anni di carcere, legato alla banda di Angelo Epaminonda; Antonio Talia,73enne, vicino alle cosche di Africo; e Giuseppe Calabrò, 74enne, detto ‘u dutturicchio’, legato al clan di San Luca, trapiantato a Milano. A incastrare Latella è stata nel 2007 (epoca in cui era in carcere) l’attribuzione di un’impronta palmare sul vetro della Mini Minor su cui viaggiava la giovane studentessa al momento del rapimento. Latella ammise di essere stato uno dei sequestratori della giovane milanese, chiamando in causa Talia e Calabrò, colui che stando all’accusa avrebbe materialmente “proposto” il sequestro: un lavoro sporco per un compenso di 50 milioni di lire.

Tenuta prigioniera in una botola con pareti di cemento

Cristina Mazzotti fu consegnata ai carcerieri ad Appiano Gentile, per poi essere trasferita a Castelletto Ticino, dove era stata tenuta prigioniera in una buca con pareti di cemento, all’interno di un garage, profonda 1 metro e 45 centimetri, lunga 2 metri e 65, larga 1 metro e 55 da cui usciva all’esterno un tubo di plastica di 5 centimetri per respirare. Uno dei carcerieri, Giuliano Angelini, che aveva la passione per la medicina, durante la prigionia aveva iniettato alla giovane sia sonniferi (per sedarla), che eccitanti (quando aveva voluto che al telefono strappasse il cuore ai familiari), finendo per provocarne volontariamente la morte, avvenuta fra il 31 luglio e il 1° agosto 1975. Degli autori materiali del rapimento non si è mai saputo niente, sino alla “lettura” dell’impronta palmare su una portiera della Mini Minor.

Nel processo in Corte d’Assise di Como l’attenzione si concentra, soprattutto, sul quarto imputato Giuseppe Morabito, 80enne boss della cosca Morabito-Falzea di Africo, residente nel Varesotto, accusato di essere l’ideatore del rapimento di Cristina Mazzotti, unitamente a Francesco Aquilano e Giacomo Zagari, entrambi boss della ’ndrangheta calabrese operante in Lombardia (non sono a processo in quanto deceduti). Morabito è alla sbarra accusato come gli altri tre imputati di sequestro di persona e omicidio volontario aggravato. Reati che, considerato il periodo trascorso dai fatti, sembravano essere prescritti.

La svolta nel 2015

La svolta si è avuta con una sentenza delle Sezioni riunite della Cassazione che nel 2015 stabilì come imprescrittibile (con qualunque attenuante) il reato di omicidio volontario. Morabito è rimasto imbrigliato nel sequestro di Cristina Mazzotti in quanto la Giulia blu che, con altre due autovetture, partecipò al sequestro era di proprietà di sua sorella e per sua ammissione era in uso a lui. L’udienza di apertura del processo si è soffermata sulla formazione del fascicolo giudiziario. L’accusa – rappresentata in aula dal pubblico ministero antimafia Cecilia Vassena della Dda di Milano – ha formalizzato la richiesta di una decina di testimoni, fra cui anche tre deceduti. O meglio i verbali delle dichiarazioni forniti in precedenti processi da Angelo Epaminonda, detto il Tebano, storico boss della ’ndrangheta che imperversava in Lombardia negli anni Settanta e Ottanta e il boss Antonio Zagari (figlio di Giacomo Zagari), responsabile di sequestri di persona nel Varesotto. I due pluripregiudicati già a una decina di anni dal sequestro parlarono del caso Mazzotti come di una vicenda nata per ordine della 'ndrangheta e gestita dai clan dei calabresi che si sono tenuti quasi tutto il riscatto, lasciando un pugno di mosche (solo i soldi sequestrati a Ponte Tresa sono stati recuperati) ai carcerieri per aver causato la morte di Cristina. È soprattutto Zagari, collaboratore di giustizia, ad accusare Morabito di essere stato l’ideatore del rapimento della studentessa milanese.

Fra i testimoni che saranno sentiti in aula anche i fratelli di Cristina, Vittorio e Marina Mazzotti, che si sono costituiti Parte civile, l’attuale questore di Como Marco Calì, dirigente della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Milano, che ha svolto l’ultima tranche di indagine, e Carlo Galli ed Emanuela Luisari, che si trovavano accanto alla studentessa la notte del sequestro e che già hanno riconosciuto Latella, Talia e Calabrò. Le indagini dell’epoca portarono il Tribunale di Novara a emettere nel 1977 tredici condanne di cui otto ergastoli: tra carcerieri (oltre a Angelini, anche Ballinari, Loredana Petroncini e Rosa Cristiano), centralinisti e fiancheggiatori, e cinque condanne a pene fra i 16 e i 26 anni. In Cassazione gli ergastoli furono quattro. Otto di loro, fra cui Ballinari, sono deceduti. La prossima udienza si terrà il 16 ottobre.