Il governo si oppone alla proposta di Filippini (Udc) di consentire l'iscrizione nel catalogo elettorale di una parrocchia diversa da quella di residenza
Due no e un sì. È questo il responso del Consiglio di Stato in merito all’iniziativa parlamentare della deputata democentrista Lara Filippini che chiedeva, appunto, tre modifiche alla Legge sulla Chiesa cattolica. Pollice verso dal governo all’introduzione della possibilità di chiedere l’iscrizione nel catalogo elettorale di una parrocchia diversa da quella di residenza e alla richiesta di modifica delle norme sulla giurisdizione territoriale delle parrocchie. Sostenuta invece – così come dalla Curia di Lugano – la proposta di attribuire alla Commissione di ricorso indipendente contro le decisioni degli organi parrocchiali, quale prima istanza giudiziaria, tutte le contestazioni derivanti dalle decisioni di Diocesi, parrocchie, istituzioni ed enti ecclesiastici eretti dall’Ordinario.
Con ordine. La prima bocciatura, la più importante, alla quale si unisce pure la Curia, è alla proposta di modifica dell’articolo 3 della legge. “Le parrocchie della Chiesa cattolica sono corporazioni di diritto pubblico a carattere territoriale – specifica il governo nel suo messaggio –. Analogamente alla determinazione di chi compone il comune, anche per la determinazione della composizione della parrocchia deve essere determinante l’appartenenza territoriale”. A livello comunale, “per la determinazione del domicilio e l’iscrizione nel catalogo elettorale non è determinante il comune in cui il cittadino si sente più integrato – annota il Consiglio di Stato – ma esclusivamente quello del domicilio”. Di conseguenza, “è concettualmente sbagliato consentire a una persona di scegliere incondizionatamente a quale corporazione di diritto pubblico aderire”.
In più, “il criterio del domicilio è determinante anche per l’assoggettamento delle persone fisiche all’imposta di culto. Adottando la proposta dell’atto parlamentare – continua a scrivere l’Esecutivo – si potrebbe riscontrare il caso in cui la medesima persona verserebbe l’imposta di culto a una parrocchia e sarebbe membro di un’altra parrocchia”. Vi sarebbe, inoltre, potenzialmente “il rischio di richieste di iscrizione nel catalogo di altre parrocchie a dipendenza di convenienze di vario genere, per esempio di natura finanziaria oppure per sfuggire a norme di incompatibilità o di collisione di interessi nel caso di commesse per lavori”.
Detta altrimenti: “Si rischierebbe di consentire un turismo tra le parrocchie. Nemmeno l’introduzione di un elenco di presupposti che consentano l’iscrizione in un’altra parrocchia sarebbe soddisfacente: in molti casi sarebbe infatti pressoché impossibile verificare l’adempimento di tali presupposti”.
Passiamo alla seconda bocciatura governativa, quella sulla proposta di modifica dell’articolo 8: “La legislazione attuale stabilisce che l’estensione territoriale della parrocchia corrisponde, di regola, a quella del comune politico. L’Ordinario può stabilire un’estensione diversa, dopo aver sentito le assemblee parrocchiali interessate. Soprattutto in seguito alle fusioni di comuni avvenute negli ultimi trent’anni, è cresciuto il numero di parrocchie la cui estensione territoriale diverge da quella del comune”, premette il Consiglio di Stato. La richiesta di Filippini è di confermare il principio del parallelismo dell’estensione territoriale della parrocchia e del comune, ciò “costituisce però a ben vedere una limitazione delle facoltà dell’Ordinario”, rileva il governo. Perché? Perché secondo la legge “l’Ordinario può ammettere più parrocchie su un unico comune politico solo alla condizione che ogni singola parrocchia riesca a costituire i suoi organi, che le parrocchie assicurino l’amministrazione ordinaria e gli investimenti necessari alla conservazione dei beni parrocchiali e che non si sottraggano in modo deliberato e continuo ai doveri”.
Ebbene, “comprendiamo la volontà di indicare in modo più esplicito nella legge il principio secondo il quale le parrocchie che da sole non sono in grado di svolgere i compiti vengano unite”, concede il governo. Così come “è condivisibile la decisione di riunire le parrocchie che durevolmente (e quindi non solo per circostanze temporanee) non siano in grado di comporre i loro organi e di svolgere i compiti loro attribuiti”. È avviso del Consiglio di Stato però che così come proposta “la formulazione dell’articolo 8 limita in modo inutile le prerogative e il margine d’apprezzamento dell’Ordinario” che, già oggi, “se lo reputa opportuno può promuovere la fusione di parrocchie con difficoltà organizzative o finanziarie”.
Secondo il progetto di legge, rincara il Consiglio di Stato, “sfuggono alla coercizione di una fusione solo le parrocchie che non hanno difficoltà ad assicurare l’amministrazione ordinaria e gli interventi di conservazione dei beni parrocchiali. La presenza di difficoltà dovrebbe invece portare alla fusione. È nostra opinione che questo motivo da solo non deve condurre necessariamente a una riorganizzazione territoriale – si legge ancora nel rapporto governativo –. Pur non conoscendo la situazione delle singole parrocchie, è ragionevole immaginarsi che molte affrontino più o meno regolarmente difficoltà finanziarie”.
Va da sé che “nel caso della parrocchia che si sottrae in modo deliberato e continuo ai propri doveri la conseguenza dovrebbe essere un intervento dell’autorità di vigilanza per porre fine al problema, e non la fusione, che in questo caso apparirebbe come una sorta di sanzione nei confronti della parrocchia”. Poi, certo, le realtà comunali evolvono. Ma proprio per questo “il principio del parallelismo tra le giurisdizioni territoriali della parrocchia e del comune va applicato con minore rigore in particolare nei casi dei comuni molto grandi per popolazione o estensione territoriale”. Per evitare fraintendimenti, a ogni modo il Consiglio di Stato afferma che “questa considerazione non deve prestarsi a giustificare il mantenimento di piccole parrocchie che non sono in grado di svolgere i loro compiti”.
Detto dei no, si passa all’unico semaforo verde concesso dal governo: la modifica dell’articolo 22. Una modifica che, è anche opinione della Curia di Lugano, “consentirebbe di riunire in un’unica autorità giudiziaria le competenze in materia di contestazioni che coinvolgono le corporazioni e gli enti della legge sulla Chiesa cattolica. Essa si giustifica anche dal numero esiguo di casi di controversie che non riguardano decisioni degli organi parrocchiali. Va poi rilevato che tutte le decisioni della Commissione di ricorso sono impugnabili davanti al Tribunale cantonale amministrativo”.
Sempre parlando della Commissione di ricorso, si sottolinea come “è nominata dal Consiglio di Stato, su proposta dell’Ordinario. La Commissione avrà quindi la competenza di decidere anche su contestazioni che riguardano decisioni dell’Ordinario, il quale ha proposto i membri della commissione stessa. Reputiamo che questo non costituisca un problema perché la nomina è effettuata dal Consiglio di Stato e la Commissione rispetta i requisiti di indipendenza”.