Alla scoperta del reparto dell'Ospedale Italiano, da qualche giorno nel pieno delle sue funzionalità. ‘Non siamo una struttura di fine vita’
Due poltrone (decisamente comode), luci soffuse e un grande mosaico appeso alla parete. Dall’altra parte del muro, in quella che è chiamata la ‘Sala dell’acqua’, un idromassaggio con le candele ai bordi della vasca. Siamo nel reparto di cure palliative dell’Ospedale Italiano di Lugano. «Lo ripeto sempre: questo non è un hotel a cinque stelle, ma un luogo di cura. Gli spazi sono pensati per rispondere ai bisogni dei pazienti, che hanno necessità specifiche», afferma Claudia Gamondi, primaria della clinica di cure palliative e di supporto Iosi ed Eoc, mentre ci racconta, proprio su una delle due poltrone, le attività del reparto. «Qui cerchiamo di curare la persona, oltre che la malattia. La stanza dove siamo seduti è molto bella, ma la sua funzione è aiutare i pazienti. Ricevere una notizia difficile qui non è come sentirsela comunicare in piedi nel mezzo del corridoio. Offrire un bagno caldo prima di dormire, invece, può essere un’alterativa naturale alle pastiglie per il sonno». Gli esempi che spiegano la particolarità del reparto sono diversi. Oltre alle dieci stanze singole, tutte fornite di un divano-letto per ospitare un familiare, ai pazienti sono messi a disposizione anche altri spazi. «Chi si trova in questo reparto non viene svegliato per forza la mattina alle otto, ma gli si concede il giusto riposo. Anche in questo caso – precisa Gamondi – non si tratta di un lusso, ma della necessità di rispettare i ritmi del sonno del paziente. Ritmi che spesso è la malattia a rendere poco regolari». A essere accolte in questo reparto sono infatti persone che necessitano di cure palliative specifiche e che quindi non possono restare in un reparto “ordinario”.
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Mettere il paziente a proprio agio
Un servizio «a misura di paziente», come ricorda anche la caporeparto Paola Piraccini: «Vogliamo offrire un'assistenza molto personalizzata. Quando arriva un paziente la prima cosa che facciamo è conoscerlo ed entrare in empatia. Non solo con lui, ma anche con la famiglia. Chiediamo quali siano le abitudini alimentari e sociali. Non vogliamo modificare lo stile di vita, ma coniugare bisogni di cura e personali». Ogni anno sono in media duecento i pazienti che necessitano questo tipo di trattamenti. L'occupazione è quindi piuttosto alta. «Servirebbe un altro potenziamento a livello cantonale per riuscire a far fronte al fabbisogno», spiega Gamondi.
Il reparto è stato attivato nel maggio del 2021 e oggi ha raggiunto la sua piena funzionalità, con una piccola cerimonia nel pomeriggio dedicata a famiglie, associazioni e autorità. Accogliamo pazienti con malattie croniche evolutive, quindi che non possono guarire. «Ma che hanno un ampio margine di cura. I pazienti che entrano in questo reparto spesso lo fanno anche solo per un periodo di passaggio». In Ticino, oltre a quelli dell'Ospedale Italiano, sono presenti altri sette posti letto di questo tipo all'ospedale San Giovanni di Bellinzona. Su un aspetto Gamondi ci tiene a mettere l'accento: «Questo non è un reparto per pazienti oncologici o di fine vita. La metà dei pazienti che passa da qui poi torna a casa o va in un'altra struttura per la continuazione delle cure. Non è una struttura di fine vita. Troppo spesso c'è ancora l'idea che arrivando qui il proprio destino sia segnato. Non è sempre così. Ci sono pazienti che faticano ad accettare l'idea di arrivare qui ma poi, una volta dimessi, chiedono di tornare qui nel caso di un eventuale nuovo ricovero».
Per chi si trova confrontato con un percorso di cure palliative, però, a volte può entrare in linea di conto anche la possibilità del suicidio assistito. «È una delle tante possibilità offerte dalle cure di fine vita, quindi siamo abituati ad averne a che fare. Come Ente ospedaliero cantonale abbiamo un approccio neutrale. Non un servizio o un’idea che offriamo al paziente, ma se ci arriva la richiesta, dopo averne parlato con il diretto interessato e la famiglia, siamo pronti ad accompagnare il percorso. Per noi – sottolinea la primaria – è importante che il paziente non resti solo e non si senta abbandonato».
In un periodo storico in cui il settore sanitario lamenta carenza di personale, che situazione vive il settore delle cure palliative? «Il personale non manca. Anzi, riceviamo molte candidature. Anche a livello di ricambio del personale siamo decisamente messi meglio che altri reparti. Stesso discorso a livello di burnout. Qui – afferma Gamondi – medici e infermieri trovano una maggiore umanizzazione delle cure. C’è un contatto più personale con il paziente e questo offre maggiori soddisfazioni professionali. Qui si curano le persone prima degli organi, e la maggior parte del personale sanitario intraprende questa strada professionale proprio con questo obiettivo».