Faccia a faccia tra Landi (Unia) e Albertoni (Camera di commercio) sulla modifica della Legge sull'apertura dei negozi, in votazione il 18 giugno
Dare un mano ai commerci ticinesi, offrendo loro maggiori libertà di apertura dei negozi. È con questo proposito che il Gran Consiglio ha accolto lo scorso novembre un’iniziativa parlamentare targata Plr, che chiedeva una modifica della Legge sull’apertura dei negozi. Tre i cambiamenti: aumentare da tre a quattro le domeniche all’anno durante le quali i lavoratori possono essere occupati nei negozi senza richiedere alcuna autorizzazione, di concedere l’apertura delle attività fino alle 19 anche nelle feste infrasettimanali non parificate alla domenica (escluso il Primo maggio) e nelle domeniche che precedono il Natale, e di aumentare le superfici da 200 a 400 metri quadri per quanto riguarda i negozi che hanno diritto alle deroghe di legge previste per le località turistiche la domenica. Favorevoli alla modifica sono Centro, Lega e Udc, che insieme al Plr hanno formato un comitato interpartitico. Slogan della campagna: ‘Apriamoci pure noi’, che vuole essere un riferimento alle difficoltà dei negozianti ticinesi. I favorevoli ritengono in questi cambiamenti un aiuto soprattutto ai piccoli commercianti, confrontati con la concorrenza del turismo degli acquisti, ma non solo, a questa si aggiungono “le difficoltà legate all’incremento dei costi dell’energia e dei prezzi delle materie prime dovuto alla guerra in Ucraina e alla concorrenza della vendita online esplosa con la pandemia”.
Non sono invece d’accordo Unia e Ocst, che vedono in questa proposta “l’ennesimo regalo alla grande distribuzione”. I due sindacati, con il sostegno della sinistra e di una serie di associazioni hanno lanciato il referendum, raccogliendo 7’168 firme. La popolazione dovrà quindi esprimersi il 18 giugno. A rimetterci, secondo contrari, saranno soprattutto i lavoratori. Da questo concetto deriva il nome della campagna: ‘La domenica non si vende’. Per sinistra e sindacati quella promossa dal fronte borghese è una ‘tattica del salame’ che, fetta dopo fetta, vuole “imporre un modello di società dove si lavora sette su sette, 365 giorni l’anno”. Il punto maggiormente contestato dei tre in votazione è quello che permetterebbe ai negozi fino a 400 metri quadri di richiedere la deroga per l’apertura domenicale nelle zone turistiche. “Se passasse questo punto sarebbero moltissimi i commerci che potrebbero quindi tenere aperto in maniera generalizzata: tutti i giorni della settimana per più di 16 ore al giorno”.
Queste modifiche seguirebbero infatti quelle entrate in vigore il 1° gennaio 2020, quando venne introdotta – dopo lunghe discussioni – mezz’ora di apertura in più per i negozi. Anche per questa modifica fu necessaria una votazione popolare (nel febbraio 2016), che respinse il referendum lanciato da Unia contro la decisione presa dal Gran Consiglio nel 2015. In seguito alla votazione, e dopo un lungo iter, venne anche introdotto un Contratto collettivo di lavoro (Ccl) per la vendita che, tra l’altro, andrà in scadenza a breve. Durante la campagna non sono mancate anche scambi d’opinione accesi tra i due fronti. La Federcommercio ha parlato di “disinformazione fasulla da parte dei referendisti”. Secondo l’associazione di riferimento per il commercio al dettaglio in Ticino, che sostiene la modifica di Legge come anche la Camera di commercio, “questa modifica della Legge non sarà una costrizione ma una opportunità”.
Luca Albertoni (direttore della Camera di commercio), favorevole
Luca Albertoni, con maggiori possibilità di giorni di apertura per i negozi – per i contrari – a rimetterci saranno ancora una volta i lavoratori, chiamati a lavorare più spesso la domenica dopo che già negli ultimi anni ci sono state delle modifiche per avere maggiori aperture. La vostra è una ‘tattica del salame’ per arrivare ad aperture sempre più senza restrizioni?
Non è così perché si tratta di una modifica minima. Per quello che riguarda la domenica in più ci si va a uniformare alla Legge federale. Legge che, tra l’altro, protegge anche i lavoratori. Non vedo poi come si possa parlare di ‘tattica del salame’: si tratta di modifiche che vengono prese con un ritmo molto lento, a distanza di anni l’una dall’altra e che sono sempre discusse anche dalla popolazione prima di essere approvate. Per poter parlare di ‘tattica del salame’ bisognerebbe avere dei cambiamenti molto più rapidi. Dal nostro punto di vista si tratta di normali adattamenti alle circostanze che non andrebbero magari nemmeno discussi.
La vostra proposta, però, segue una serie di modifiche introdotto nel 2020. Non si sarebbe potuto aspettare qualche anno per valutare gli effetti di maggiori aperture?
Non so in che misura siano misurabili gli effetti, se non nelle cifre generali del settore e tenendo comunque conto che veniamo da anni di pandemia. Quello che constato è come il mondo ‘galoppa’ l’abbiamo visto in questi anni. I cambiamenti di contesto sono molto rapidi e non mi scandalizza ci siano delle revisioni che hanno comunque una distanza di diversi anni. È normale ci siano adattamenti a un contesto che cambia sempre più velocemente.
Un dei punti maggiormente contestati è quello dell’estensione della superficie, da 200 a 400 metri quadrati, dei negozi che possono chiedere la deroga per aprire la domenica. Un cifra che secondi chi si oppone è stata presa senza nessun criterio logico se non favorire la grande distribuzione.
I commercianti ci dicono che la superficie di 400 metri quadrati è quella necessaria per avere un certo agio nello stock della merce e della vendita e della scelta dei prodotti. Viene interpretato come un favore alla grande distribuzione ma non è così. Le stesse catene hanno detto che se venisse introdotta questa possibilità prima farebbero delle valutazioni. E proprio questo è un punto centrale, si tratta di una possibilità di aprire e non di un obbligo. È una libera scelta che i piccoli commercianti possono sfruttare.
C’è una parte dei commerci locali che non sfrutta tutte le possibilità di apertura che la Legge già oggi prevede. Perché quindi bisogna andare oltre?
Non penso che ci sia un problema di quantità di concessioni che si danno ai commercianti, ma si tratta di un aspetto della qualità delle possibilità che si danno ai negozianti di potersi adattare alle circostanze. Hanno possibilità di scegliere in modo migliore. È un discorso di tipo qualitativo. Più possibilità si danno più ognuno potrà trovare la sua giusta dimensione e il modello più adatto alla sua attività.
Diversi studi citati dai contrari dimostrano come maggiori aperture non portano a un aumento del fatturato, che viene solo “spalmato” su più giorni. Quale sarebbe quindi l’effetto positivo?
Già il fatto che il giro d’affari di un negozio, in un periodo come quello attuale, non diminuisce è una buona notizia. Sappiamo ovviamente che questa non è la soluzione a tutti i problemi, come la concorrenza del commercio online e del turismo degli acquisti. Ma in questo modo si vuole dare una mano ai commerci e cercare di trattenere di più i clienti in Ticino. Sono piccole misure che permettono qualcosa in più. Uno strumento che è meglio avere piuttosto che non avere.
Chiara Landi (Unia), contraria
Chiara Landi, le associazioni di categoria, che rappresentano i commercianti, si sono dette per il sì. Perché sostenete che i piccoli commerci sarebbero svantaggiati da questa modifica di Legge, se loro per primi si sono detti a favore?
Queste modifiche di legge sono sostenute soprattutto dalla grande distribuzione, che ha un interesse diretto perché vuole che si liberalizzi l’apertura sette giorni su sette di negozi con una superficie di 400 metri quadri. La penalizzazione per i piccoli commerci c’è e non lo diciamo noi, ma studi internazionali che dimostrano come l’apertura domenicale tolga fasce di mercato ai ‘piccoli’ e li spinga anche verso la chiusura. Con queste modifiche quindi ci sarà un impatto, ma negativo.
Questa modifica, secondo i promotori, non va a peggiorare le condizioni di lavoro dei dipendenti. La Legge sul lavoro e il contratto collettivo di lavoro non sono infatti in discussione. Cosa temete?
Premessa: la Legge federale sul lavoro vieta il lavoro domenicale se non in settori ritenuti essenziali. Con la proposta in votazione si vuole quindi aggirare la Legge. Siamo convinti che le condizioni dei lavoratori andranno a peggiorare perché l’abbiamo già visto con le ultime modifiche introdotte nel 2020: sono esplosi i contratti su chiamata, quelli a tempo parziale. Tipologie di impiego che obbligano il dipendente a essere disponibile al 100% per lavorare magari solo 18-20 ore alla settimana. Aggiungere un giorno in più, oltre che togliere tempo libero nel fine settimana per la famiglia, peggiorerà questa situazione e non creerà nuovi posti di lavoro.
Il punto che contestate maggiormente è l’estensione da 200 a 400 metri quadri. I favorevoli dicono che si tratta di negozi di medie dimensioni, voi di grande distribuzione. Non c’è un aspetto di soggettività?
Ci sarebbe piaciuto capire perché si è arrivati a questa dimensione. Tra i negozi di 400 metri quadri troviamo certamente i piccoli commerci, ma anche molti negozi della grande distribuzione e quelli di catene internazionali, che non hanno nessun legame con il territorio. Se prendiamo ad esempio Zurigo o addirittura l’Inghilterra, vediamo che i commerci ritenuti di piccole dimensioni sono quelli di massimo 200-280 metri quadri. Qui stiamo andando molto oltre, con un raddoppio delle superfici.
L’Italia sulle aperture domenicali e serali è molto più permissiva. C’è poi il commercio online che è disponibile h24. Qualche apertura in più non può essere un modo per ridurre in parte la disparità e incentivare il consumatore a spendere nei commerci locali?
L’esempio dell’Italia ci mostra come da quando sono state introdotte le aperture domenicali la cifra d’affari dei negozi non è aumentata, ma si è semplicemente spalmata sull’arco di sette giorni. Aumentare le aperture non è una soluzione per incentivare il consumo e cercare di ridurre il turismo degli acquisti. Bisognerebbe aumentare i salari per poter aumentare il potere d’acquisto dei cittadini, che invece è sempre più ridotto.
I promotori hanno detto chiaramente che non c’è nessuna liberalizzazione a tappe in atto. Perché non vi fidate?
Perché la storia lo dimostra. Negli ultimi anni si è proceduto proprio con una liberalizzazione a tappe, che pian piano ha aggiunto dei pezzi di commerci a cui è stata concessa l’apertura sette giorni su sette. Prima i commerci sulla fascia di confine, poi le stazioni ferroviarie poi le stazioni di servizio, poi le zone turistiche. A chi toccherà la prossima volta?
Nelle scorse settimane, dalle colonne di questo giornale, Speziali si è espresso per un nuovo Ccl nel settore della vendita, con condizioni maggiormente favorevoli per i dipendenti. Come vedete questa proposta?
Quella di Speziali è una proposta a orologeria, arrivata a poche settimane dal voto. È strumentale. Perché non si è parlato di rafforzare e rivedere il contratto collettivo, magari discutendo la possibilità di aumentare i salari e di riconoscere un adeguamento al rincaro in busta paga, prima di andare a proporre nuove liberalizzazioni?