Una mozione chiede di effettuare un’analisi annuale delle testate pubbliche e private per vedere se danno voce a tutti. Intervista a Massimiliano Ay
“Il pluralismo in ambito informativo è un diritto fondamentale ma è garantito solo se a tutti gli attori – in particolar modo quelli politici – viene concessa una equa diffusione delle proprie idee”. In tempi di referendum per il sostegno ai media privati, suona particolarmente incisivo l’incipit della mozione rivolta ieri al Consiglio di Stato dal Partito comunista. I due granconsiglieri Lea Ferrari e Massimiliano Ay propongono una soluzione per tenere d’occhio il rispetto del pluralismo: un monitoraggio dello spazio concesso ai vari attori politici su tv, radio, giornali e siti d’informazione che il Cantone dovrebbe affidare “all’Osservatorio europeo di giornalismo, eventualmente in collaborazione con l’Osservatorio della vita politica regionale”. Qualcosa di simile a quanto effettuato per le tivù italiane dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AgCom).
Per alcuni il modello italiano è utile a individuare storture nel sistema d’informazione, tendente bene o male a dare più spazio ai partiti maggiori e ai politici che ricoprono già una carica importante, penalizzando di converso piccole formazioni e outsider, specie se lontani dai grandi interessi economico-finanziari. Per altri invece si tratta di un commissariamento, o nel migliore dei casi un tentativo di svuotare il mare con un cucchiaino: l’informazione si pesa e non si conta – il contesto di apparizione può rendere più efficace un messaggio di un minuto che uno di tre ore – e in ogni caso le osservazioni dell’AgCom, agenzia notoriamente ‘lottizzata’ dai partiti, non darebbero quasi mai luogo a correttivi.
Sia come sia, la mozione ticinese chiede una “rappresentazione mediatica quantificata e comparata di tutti i partiti politici durante l’arco di un anno, distinguendo periodi elettorali e non elettorali, per trasmissioni d’informazione e di approfondimento di trasmittenti e testate pubbliche e private. Potranno essere evidenziati anche altri aspetti legati allo spazio dedicato a cariche istituzionali e l’equa rappresentazione di donne e uomini”. Come potrebbe funzionare lo chiediamo direttamente a Massimiliano Ay, granconsigliere e segretario politico del Partito Comunista.
Prima di tutto, una questione metodologica: i criteri di rilevamento dell’AgCom sono da tempo oggetto di critiche perché fragilini, con le loro distinzioni inevitabili ma di lana caprina tra “tempo di notizia”, “tempo di parola”, “tempo di argomento”, e la necessità di distinguere l’esposizione di un politico in quanto esponente di partito dalle sue apparizioni in qualità di carica istituzionale. Il monitoraggio di giornali e siti web complicherebbe ulteriormente il tutto, per via della diversa natura di questi veicoli di comunicazione. Non si starà cercando di pesar l’anima ai media?
Siamo consci dei limiti del modello italiano e infatti non diciamo di adottarlo alla lettera: a noi premeva anzitutto mostrare che quanto richiesto dalla mozione già esiste altrove, e dare così anche un termine di paragone al Consiglio di Stato nell’ipotizzare una via ticinese adeguata.
I media, se la nostra mozione fosse approvata, disporranno loro stessi di un documento chiaro con cui potersi confrontare e anche migliorare.
Una più grande preoccupazione viene dall’idea di avere un ‘grande fratello’ che controlla il lavoro dei giornalisti facendo loro pressione. Per reclami ed errori d’altronde ci sono già varie istituzioni, dalla Corsi al Consiglio svizzero della stampa. Conta di più il pluralismo o la libertà d’informazione?
La rilevazione da noi suggerita non prevede alcun intervento per quanto concerne i contenuti, ovviamente: essi restano nell’ambito della libertà di ciascuna redazione e della deontologia professionale dei giornalisti. Per contro, con la nostra proposta, vi sarebbe una base oggettiva con cui valutare se il pluralismo è effettivamente dato, il che peraltro rafforzerebbe la credibilità e l’indipendenza dei media. Libertà d’informazione e pluralismo, a nostro avviso, non vanno insomma contrapposti.
Se per il servizio pubblico si può comprendere una certa esigenza di ‘par condicio’, i media privati sono liberi di scegliere autonomamente la loro linea editoriale, come d’altronde fa anche il vostro portale ‘Sinistra.ch’. Non crede che il pluralismo debba essere dato anzitutto dalla pluralità di testate, più che da un manuale Cencelli che finisca per prescrivere gli spazi riservati a questo o quel partito all’interno di ciascuna?
Infatti la linea editoriale dei media privati resterebbe libera e la nostra mozione non la intaccherebbe: disporremmo tuttavia dei dati oggettivi su cui valutare quanto un media che magari si autoproclama pure neutrale e indipendente, lo è davvero. Il portale ‘Sinistra.ch’ da lei citato, anche se il termine di paragone non regge visto che è un progetto retto dal volontariato, dichiara in modo trasparente la propria linea politica, non fa finta di essere super partes. È ovvio che la pluralità di testate è importante e il fatto che oggi l’80% del mercato svizzero sia in mano a soli tre gruppi che controllano giornali, riviste, radio e tv private di tutto il Paese non è certo positivo. Se poi però, ad esempio, dieci giornali riprendono esattamente le notizie da una sola agenzia, il pluralismo viene comunque a mancare. Nel sistema economico capitalistico i grandi marchi editoriali avranno sempre la forza di esercitare un’egemonia culturale sull’opinione pubblica anche con una pluralità di testate, quindi occorre a nostro avviso agire pure sull’altro versante e cioè avere nero su bianco i dati dell’effettiva equità di trattamento delle diverse opinioni.
Come fare in modo che il gremio dei ‘controllori’ non sia colonizzato dai partiti, dando vita a un organo di intimidazione e ricatto da parte della politica nei confronti dei giornalisti?
Proprio garantendo a tutte le sensibilità politiche presenti nella società una equa rappresentanza. D’altronde già oggi i vertici dei partiti, forse a esclusione del sottoscritto e pochi altri, compiono un bel po’ di telefonate alle redazioni. Noi suggeriamo una via scientifica, molto più “pulita”.
Quali conseguenze dovrebbero avere i risultati del monitoraggio? Sanzioni? Richiami?
Non si tratta affatto di sanzionare ma di avere uno strumento che permetta di migliorare il pluralismo mediatico che nel nostro cantone è peggiorato. Da un lato abbiamo fiducia nella professionalità dei lavoratori dei media, dall’altro non ci sfuggono gli interessi dei grandi gruppi economici e politici anche nell’editoria e questi vanno perlomeno individuati. Non ci illudiamo di frenarli con questa mozione.
Nella sua mozione, il Partito comunista suggerisce di affidare il monitoraggio dei media ticinesi all’Osservatorio europeo di giornalismo che ha sede presso l’Università della Svizzera italiana, la cui funzione – leggiamo proprio sul sito dell’Usi – è “rilevare le tendenze più significative nel mondo dei media, comparando i diversi sistemi dei media e le ricerche scientifiche provenienti da Europa e Stati Uniti. Lo scopo è di contribuire al miglioramento qualitativo della professione agendo in stretta relazione con le esigenze di giornalisti, direttori ed editori, avvicinando così il mondo accademico della comunicazione a quello dei media”. Il nuovo direttore dell’Osservatorio è il professore di giornalismo digitale Colin Porlezza, che puntualizza subito: «Analisi di questo tipo esistono già. Ad esempio quelle dell’Ufficio federale delle comunicazioni (Ufcom) sulla comunicazione radiotelevisiva sia dei privati che della Srg. Poi c’è il monitoraggio della qualità dei media effettuato dal Centro di ricerca sul pubblico e la società (Fög) dell’Università di Zurigo, in cui viene analizzata anche la stampa. Per cui si tratterebbe anzitutto di capire quali nuovi strumenti possa apportare il progetto caldeggiato dal Partito comunista».
Quanto alla difficoltà di misurare lo spazio dato a questo o quel partito o esponente politico, Porlezza conferma che «chiaramente non è facile quantificare, anche perché basta una diversa combinazione tra parole e immagini per mutare profondamente il tipo di esposizione mediatica, la forza e il significato dei messaggi veicolati di volta in volta. Questo non toglie che analisi del genere vengano regolarmente svolte a livello accademico internazionale, per cui sarebbe scorretto dire che non sono possibili». Però, aggiunge, «si tratta anzitutto di decidere come si intende studiare il pluralismo, che è essenzialmente di due tipi: quello interno alle singole testate e quello esterno, che risulta cioè dalla coesistenza di diversi media con posizioni diverse nella stessa comunità. Direi che in Svizzera il pluralismo interno resta comunque forte anche nella maggior parte dei media privati. Semmai preoccupa un po’ lo stato di salute di quello esterno dato l’impoverirsi della scena mediatica, con testate che scompaiono e altre soggette a centralizzazioni delle redazioni e fusioni in grandi gruppi editoriali».
Porlezza non si pronuncia sull’eventualità che i risultati dello studio possano essere usati come manganello da questo o quel partito per intimidire una testata o un giornalista giudicati antipatici: «Da ricercatore non posso esprimermi su un’eventualità, perché come studioso il mio ruolo è quello di sintetizzare i risultati di ricerche e analisi svolte sul campo». Però precisa: «Il sistema mediatico svizzero è molto diverso da quello italiano. Quest’ultimo è storicamente caratterizzato da un’impostazione figlia dell’interesse critico-letterario più che di quello economico-commerciale, col risultato che dà più spazio alla soggettività e resta invece più lontano dagli standard anglosassoni. Inoltre – e si tratta di un dato che ha influenzato anche certe decisioni sulla necessità di par condicio – quella italiana è una cosiddetta ‘editoria impura’: quasi tutti i grandi editori sono conglomerati industriali con forti interessi esterni al mondo giornalistico, con quel che ne può conseguire per le scelte redazionali. Una situazione esacerbata dall’ascesa di Silvio Berlusconi, che ai suoi ruoli di magnate dell’edilizia e dell’editoria ne ha aggiunto addirittura un terzo, quello della personalità scesa direttamente in politica, forte del suo profilo carismatico. Poi c’è un ultimo elemento che differenzia l’Italia dalla Svizzera: il fatto che nel primo caso sia lo Stato a possedere direttamente i media di servizio pubblico, con le conseguenze anche politiche che ne scaturiscono. In Svizzera invece il mandato di servizio dei media pubblici non implica una proprietà statale diretta, con gli organi dell’esecutivo federale che semmai ne verificano il rispetto di certi criteri, quali lo spazio dato a minoranze linguistiche e regioni periferiche. Può sembrare un distinguo formale, ma si riflette nella grande distanza tra il nostro sistema d’informazione pubblico e le ‘lottizzazioni’ spesso denunciate presso la Rai».