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Afghanistan, l’ansia della comunità in Ticino

Gli afghani rifugiati e residenti nel cantone si trovano spesso senza notizie dei loro cari e non sanno come fare per aiutarli. Pressioni delle Ong su Berna

Da una manifestazione a Lugano (Ti-Press)
28 settembre 2021
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«In nostro Paese molto casino, molto molto. Ma noi non possiamo fare nulla». S. cerca le parole giuste per esprimere la sua preoccupazione, il suo senso d’impotenza di fronte al ritorno dei Talebani in Afghanistan. Ha lasciato il Paese nove anni fa e ora abita in un appartamento nel Locarnese insieme ai tre figli e alla moglie, sua connazionale, che lo guarda negli occhi e ne completa il discorso: «Non riesco più a dormire, vivo nella paura di dover ritornare, piango». I due sono al sicuro, protetti da un permesso F come rifugiati, ma hanno parenti e amici rimasti indietro. «So che i figli di mio zio a Kabul sono nascosti in una cantina. Uno di loro ha un tatuaggio sul braccio, se lo vedono i Talebani glielo tagliano». E ancora: «Hai visto cosa fanno alle donne? Non possono studiare, lavorare, a 12 anni si devono sposare. Ma guarda che approfittano di te anche se sei un bel ragazzo».

Il contrasto è evidente con la tranquillità ticinese. «Sono grato alla Svizzera per tutto quello che ha fatto per noi», ripete più volte S., nonostante qualche difficoltà: un italiano ancora zoppicante, il lavoro solo a percentuali ridotte. Ora si dà da fare in una pizzeria e si dice dispiaciuto di dover ancora ricevere il denaro dell’assistenza sociale. Per lui, come per molti afghani della diaspora, l’exploit talebano taglia i ponti tra la vita qua e la patria, annulla la già remota speranza di ritornare, ma anche quella di sapere se i membri della sua famiglia – quelli che non sono a loro volta scappati dal Paese – sono al sicuro: «Ora vorrei solo che i nostri figli, come tutti gli altri ragazzi, potessero realizzare i sogni che i Talebani e tutte le guerre ci hanno tolto», ci dice con l’aiuto del figlio più grande.

Cicatrici e kalashnikov

In alcuni casi l’angoscia si fa rabbia, come nel caso di R., che è arrivato in Svizzera a 18 anni e ora ne ha 25. Appartenente alla minoranza hazara, ferocemente perseguitata dal regime, i Talebani gli hanno ammazzato il papà quando era un bambino. Ora pensa ai suoi parenti «tutti scappati in montagna, senza cibo né contatti, barricati a combattere contro i Talebani». Fa vedere le lunghe cicatrici che gli solcano le braccia, ricordo di una vita di aggressioni e pestaggi anche durante l’esilio nei campi profughi in Iran, e dice cupamente: «Ti confesso che se potessi rientrare prenderei in mano il kalashnikov. Noi ci siamo cresciuti, col fucile in mano, e sappiamo che i Talebani non capiscono altro linguaggio, sono troppo ignoranti».

Parole che suonano più come uno sfogo che come una minaccia, per questo ragazzo che d’altronde incontriamo in una chiesa dopo la conversione: «Non avevo nulla, e loro mi hanno accolto», dice passando dalla rabbia alla commozione. Come molti ha dietro di sé una storia sulle vie dei migranti, tra gommoni strapieni e il doppio fondo d’un camion, culminata in un anno al bunker di Camorino («un casino, tutti drogati, dormivano e litigavano tutto il giorno»). Ha trascorso perfino un periodo in carcere per essersi rifiutato di lasciare la Svizzera, prima che la Segreteria di Stato della migrazione riconoscesse il suo bisogno di protezione: «Il battesimo me l’hanno portato in cella».

Appelli a Berna

Venendo a quel che può fare la Confederazione, i pareri si moltiplicano: «Non riconoscere in alcun modo i Talebani», dice S. «Aiutare la resistenza», secondo R. Da Berna, per ora, arriva l’accoglienza di poche centinaia di persone, insieme a 60 milioni di franchi in 16 mesi per le organizzazioni ancora operative in Afghanistan. Ma l’urgenza della situazione ha messo molti attivisti locali sul chi vive. Sono svariate le petizioni che sollecitano il governo federale: c’è quella del Partito socialista che ha raccolto oltre 40mila firme, affiancata dall’appello di Amnesty International e da quelli delle Chiese riformate, dell’associazione Brava contra la violenza sulle donne e di un gruppo di giuristi indipendenti.

«Il fatto di non poter soccorrere i propri cari, e in molti casi di avere perso regolari contatti con loro, è fonte di grande angoscia per chi si trova qui», ribadisce Mario Amato, direttore di Soccorso operaio svizzero per il Ticino. «In questo momento quel che possiamo fare è anzitutto informare la comunità afghana residente, che si è subito rivolta a noi per capire come muoversi. Purtroppo per ora non vengono messi a disposizione grandi strumenti per aiutare chi è rimasto in patria, data la mancata apertura di speciali corridoi umanitari e mancando una revisione della politica di accoglienza».

Per Sarah Rusconi, portavoce di Amnesty, «la speranza è che vengano accettate almeno alcune delle principali richieste delle Ong, ovvero facilitare i visti e i ricongiungimenti familiari, e poi rivedere le decisioni di rimpatrio. È importante consentire l’accoglienza di un numero importante di persone, anche nell’ambito di programmi di ricollocamento europei e internazionali».

Tra accoglienza e rimpatri

Nel frattempo, Amnesty raccoglie contributi per il fondo Human Rights Relief, pensato per intervenire in specifiche situazioni di rischio. «Da una parte, il denaro serve ad aiutare gli attivisti per i diritti umani che si trovano a subire situazioni di persecuzione e clandestinità, nella speranza di poter alleviare la loro sofferenza nell’immediato. Ma stiamo anche lavorando alla creazione di una lista aggiornata di tutti gli attivisti minacciati, la cui situazione verifichiamo scrupolosamente. Questo ci permette ad esempio di supportarne la richiesta di visti per l’estero presso le ambasciate, anche se sappiamo che soprattutto per la Svizzera i criteri sono e restano rigidissimi»

Infine, ricorda Amato, «un fronte che ci vede molto impegnati è quello dell’assistenza giuridica a chi si è già visto recapitare una decisione negativa circa il permesso di soggiorno, persone che prima o poi rischiano di essere rimpatriate. La Confederazione ha congelato gli allontanamenti verso l’Afghanistan dal 20 agosto, ma a preoccupare la decina di casi ticinesi è quel che gli riserva il futuro. Per questo stiamo riesaminando la situazione caso per caso. Laddove vi siano gli estremi, valuteremo se presentare una domanda di riesame o di revisione».