Leonardo Da Vinci (Supsi) parla dell’esigenza di accompagnare le parole di comprensione con delle misure per permettere ai ragazzi di stare insieme
Bottigliate contro la polizia, assembramenti serali senza mascherina, rifiuti per strada dopo i bagordi. In queste ultime settimane sono giunte all’attenzione della cronaca dimostrazioni di insofferenza da parte dei giovani nei confronti delle regole per contrastare il coronavirus. Stanchi di non potersi incontrare liberamente, decine di ragazzi e ragazze si sono impossessati dei luoghi pubblici mostrando anche molta aggressività. Senza giustificare gli atti di violenza e di disobbedienza, cosa sta cercando di dirci questa generazione? L’abbiamo chiesto a Leonardo Da Vinci, docente alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) dove si occupa della formazione di educatori e di assistenti sociali.
C’è effettivamente un aumento dell’aggressività?
Penso di sì. Anche i miei colleghi hanno notato che la pandemia ha sollecitato e amplificato situazioni che in realtà ci sono sempre state, ma che non vanno relativizzate. Per poter crescere, i giovani hanno bisogno di confrontarsi e mettere in discussione le regole della società. Le condizioni attuali hanno prodotto delle restrizioni tali per cui questa sorta di gabbia si fa più stretta e l’intolleranza come l’insofferenza aumentano. Da una parte c’è il mondo adulto, i politici, ma anche gli addetti ai lavori, che dicono di capire che i giovani stanno particolarmente soffrendo. Però poi, paradossalmente, nei fatti il messaggio che a volte fanno passare pare andare in senso opposto.
Cosa bisognerebbe fare o evitare per aiutare questi ragazzi?
Da una parte capire qual è il margine di tolleranza che si può avere con loro. È vero che ci sono delle regole sanitarie che sono state imposte per una questione di salute pubblica, ma ci vorrebbe più tolleranza. Essere meno rigidi per permettere loro di avere uno spazio di espansione dove ricostruire una vita più o meno normale. Ci vorrebbero delle risposte che non siano semplicemente quelle regolamentative e della repressione. Bisognerebbe riuscire ad accompagnare la comprensione per la loro condizione con dei segnali di apertura.
I giovani comprendono la situazione sanitaria?
Credo che in linea generale loro la capiscano bene. Ci sono queste situazioni di assembramenti senza mascherina, ma se le mettiamo in proporzione al numero di giovani sul territorio, la stragrande maggioranza sono ragazzi che si adattano, che hanno capito e che si adeguano alle regole con grande responsabilità. È anche possibile che molti ragazzi cercano di relativizzare la situazione per darsi una prospettiva meno pessimista. Al di là della pandemia stiamo già vivendo una situazione generale che non è rassicurante riguardo al futuro.
Qual è il modo di approcciarsi ai ragazzi senza creare quello che può essere un rifiuto ancora più grande. La voglia maggiore di trasgredire?
Un modo è quello di avvicinarli con una modalità di ascolto, evitando di giudicarli e punirli. Ci sono poliziotti molto sensibili e attenti, ma il fatto di rappresentare la legge non aiuta. In quel momento i giovani sentono il bisogno di contrastare quelle che sono le regole. Molti comuni si stanno dotando di operatori di prossimità. È una buona occasione per parlare con i ragazzi e capire quali sono i loro bisogni. Potrebbe essere un modo per limitare le reazioni aggressive e trovare strade più costruttive. A volte, come adulti, facciamo fatica a comprendere quanto l’insofferenza dei giovani sia il risultato di quello che mettiamo loro a disposizione. Si punta il dito sui ragazzi come se loro fossero i soli responsabili della loro condizione.
È dunque necessario mettersi nei loro panni.
Sì, i ragazzi sono vittime di un mondo che non hanno costruito loro, che non sempre comprendono e nel quale faticano a stare. Dovremmo provare a essere un po’ più attenti nell’individuare quali sono quelle condizioni o situazioni problematiche che li mettono maggiormente in difficoltà, soprattutto quelli più fragili. È utile chiedere loro quali sono le strade che vorrebbero percorrere e come vogliono farlo, ma come adulti spesso si fa fatica ad accettare le loro proposte perché non rispettano i nostri canoni sociali. Bisogna riuscire a trovare dei compromessi.
Quali sono i rischi di un protrarsi di queste situazioni di chiusura e di regole ferree?
Uno è quello di amplificare ulteriormente questa voglia di poter uscire, con anche delle manifestazioni aggressive. Però questa è la reazione più evidente. C’è anche chi al contrario si chiude. Ci sono sempre più casi di ragazzi che non vogliono più andare a scuola. Se da un lato il fatto di reagire alla società e alle regole rientra nella normalità di una fase dello sviluppo, più preoccupante è il ritiro sociale. Questo è un aspetto che si vede in misura inferiore, dà meno fastidio, non trasgredisce le regole. Ma sotto un profilo di qualità della vita dei giovani è sicuramente più preoccupante.