Uno studio dell’Ustat fornisce nuovi strumenti per interpretare una tendenza non solo locale. Intervista al Responsabile del settore economia Maurizio Bigotta
Cosa ci fa la foto un po’ ‘dark’ d’una tatuatrice alle prese col braccio d’un cliente sulla copertina di un sobrio studio statistico, il cui titolo promette “una lettura sistemica” del mercato del lavoro ticinese? Presto detto: «L’intento è quello d’illustrare come si stia andando verso impieghi e inquadramenti professionali ben diversi da quelli tradizionali, non solo nella tipologia delle professioni, ma anche per quanto riguarda il tipo di contratti e di prospettive», spiega il Responsabile del settore economia dell’Ufficio di statistica (Ustat) Maurizio Bigotta, coautore del contributo apparso sulla rivista ‘Dati’ insieme alla collega Silvia Walker. Contratti e prospettive, lo diciamo subito, che vedono un aumento dei tempi parziali, della sottoccupazione e di chi un lavoro non ha nemmeno più il coraggio di cercarlo.
Ecco allora che servono «nuove categorie per fornire le giuste chiavi di lettura a chi si occupa di politica dell’impiego, dato il profondo cambiamento che stiamo vivendo rispetto alle generazioni precedenti», quelle che ancora conoscevano il posto fisso più o meno a vita. Una metamorfosi – al lettore decidere se kafkiana oppure no – che d’altronde «appare come tendenza globale, non solo ticinese o svizzera, e che va di pari passo con mutamenti quali la digitalizzazione e l’invecchiamento della popolazione». Per questo, prosegue Bigotta, «non è più sufficiente suddividere la popolazione in occupati, disoccupati e inattivi: se infatti guardassimo solo queste variabili, vedremmo solo cambiamenti minimi negli ultimi dieci anni, durante i quali il tasso di attività resta attorno al 60% in Ticino e quello di disoccupazione ai sensi dell’Ilo al 6/7%, pur con gli sbalzi dovuti alla congiuntura economica. Se invece scomponiamo gli occupati ad esempio in tempo pieno e tempo parziale, ecco che vediamo già evoluzioni notevoli: anzitutto un aumento dei lavoratori part-time, che passano dal 29% al 34% del totale».
Come dire: le persone che lavorano restano più o meno quelle, ma molti lavorano di meno. Segno di una maggiore precarietà, come parrebbe dimostrato dalla tendenza globale alla magica ‘flessibilità’ e a soluzioni di tipo interinale? Oppure ci siamo semplicemente stufati del posto fisso di antica memoria, una vita, un lavoro? Non sta alla statistica risolvere l’eterno contenzioso tra ‘apocalittici’ e integrati’. «Il dato si presta a letture diverse: da una parte si può riscontrare l’emergere d’impieghi votati alla flessibilità, ma dall’altra si può notare una maggiore propensione personale a lavori più facilmente conciliabili con la propria vita privata e familiare».
Il problema è che non sempre il salario part-time permette di arrivare alla fine del mese, tanto che in Ticino – dove gli stipendi sono sensibilmente più bassi che nel resto della Svizzera, e in parecchi casi addirittura in diminuzione – la propensione al tempo parziale, o più concretamente la possibilità di ottenerlo e di conciliarne la retribuzione con le bocche da sfamare, resta comunque meno pronunciata che nel resto della Confederazione.
Un altro dato che può destare qualche preoccupazione è poi quello sui sottoccupati, coloro cioè che vorrebbero lavorare di più, ma non ci riescono: il 4,8% dei lavoratori e il 16,3% delle lavoratrici, segno che anche le differenze di genere giocano ancora un ruolo preponderante sul mercato del lavoro, «nonostante si veda un aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro». «Il fenomeno della sottoccupazione è in aumento sia in Ticino che in Svizzera: nel nostro cantone si passa dal 7% al 10% della forza lavoro tra 2010 e 2019», sottolinea Bigotta. È lecito dunque supporre che all’aumento del part-time corrisponda un aumento di coloro che vorrebbero ‘riempire’ la loro giornata lavorativa, ma non ci riescono.
Aumentano anche gli scoraggiati, «ovvero quegli inattivi che sarebbero disposti a lavorare, ma hanno abbandonato ogni ricerca perché ormai sono convinti che il mercato del lavoro non possa più dar loro uno sbocco. In Ticino parliamo di circa 1'700 persone, mentre dieci anni fa erano più o meno 300. Un aumento sicuramente notevole, anche se rimane una piccola parte della popolazione. La stessa tendenza si vede a livello svizzero, dove l’aumento è meno marcato, ma assistiamo comunque a un raddoppio dei casi: da 5mila a 10mila scoraggiati».
Se poi davvero il Ticino va nella stessa direzione del resto del mondo, viene da chiedersi cosa ci aspetta nel prossimo futuro. Ad esempio con l’espansione della ‘gig economy’, l’economia dei lavoretti promossa da nuovi colossi come Uber, Airbnb e i vari servizi di consegna a domicilio, particolarmente sollecitati all’apice della pandemia da coronavirus. Ma la statistica non è una sfera di cristallo: «Quello che possiamo dire è che in Ticino è ancora presto per individuare linee di tendenza chiare. Certo, anche la gig economy fa parte degli scenari globali e potrebbe prossimamente avere un impatto sul nostro modo di lavorare: così come ora registriamo l’evoluzione dei tempi parziali iniziata oltre dieci anni fa, tra qualche anno vedremo forse i primi segni di queste nuove tendenze». Che poi si rivelino segni positivi o cicatrici, l’importante è comunque disporre degli strumenti giusti per leggere la realtà: «Lo scopo delle nostre analisi è proprio quello di elaborare risultati oggettivi utili a interpretare statisticamente queste mutazioni».