Massimo Suter (GastroTicino) non comprende perché il suo si al'unico settore nel quale bisogna chiedere nome e numero di telefono ai clienti
«È nell’interesse degli stessi esercizi pubblici» raccogliere i dati personali dei propri clienti. A questa affermazione di Daniel Koch, delegato dell’Ufficio federale della sanità pubblica per il Covid-19, Massimo Suter risponde in modo piuttosto critico: «O lo fanno tutti oppure non lo fa nessuno», rileva da noi contattato il presidente di Gastro Ticino, che fatica a comprendere perché la sua categoria sia l’unica a dover adottare misure per favorire la ricostruzione di un’eventuale catena di contagio.
Secondo Koch, tenere traccia dei clienti permette di evitare che un ristorante o un bar diventi un focolaio d’infezione senza possibilità di rintracciare tutti i possibili contagiati: «Se un cameriere o un membro del personale si ammala e nessuno ha annotano chi erano i clienti che sono entrati in contatto con lui, non sarà possibile avvertirli» nell’ambito del ’contact tracing’, ha affermato ieri in conferenza stampa a Berna. I dati «servono quindi a loro e non a noi», ha aggiunto.
«Faccio fatica a capire» come ciò possa favorire un esercente, sottolinea Suter a ’laRegione’. «Semmai è uno svantaggio, perché la ristorazione viene così additata come l’unico settore economico nel quale qualcuno si può ammalare». Infatti, ci sono diverse altre situazioni «nelle quali questa raccolta dati non è richiesta. Penso ad esempio ai centri commerciali o ai mezzi pubblici». In realtà nemmeno nella ristorazione vige l’obbligo di chiedere nome, cognome e numero di telefono (uno per tavolo): “Gli ospiti hanno la possibilità di inserire i loro dati di contatto”, si legge nel piano di protezione rilevante per questa categoria. Resta il fatto che, stando a nostre informazioni, in diversi casi non è nemmeno stato messo a disposizione l’apposito formulario che può poi essere compilato su base volontaria dai clienti. Sutter tiene tuttavia a precisare che è opportuno «sensibilizzare il cliente dicendogli che se fornisce i suoi dati di contatto, è meglio per tutti. Abbiamo già fatto dei sacrifici a favore del contenimento del virus e quindi faremo anche questo».
Un’altra problematica è legata al rispetto delle distanze di due metri. Sembrerebbe infatti che in alcuni casi questa direttiva non venga osservata in modo corretto. Secondo Suter, però, «nella stragrande maggioranza dei casi le distanze vengono rispettate». In certi ristoranti lo spazio tra i clienti è addirittura «più ampio di quanto prevede la legge». Ma nel caso in cui la polizia cantonale (ovvero l’autorità preposta a effettuare controlli) rilevasse il mancato rispetto di questa norma, a cosa va incontro l’esercente? «Il rischio concreto è che facciano chiudere il locale, visto che si tratta di un’ordinanza federale e che con la legge non si scherza», sottolinea il presidente di GastroTicino. «Penso quindi che non ci siano ristoratori disposti a mettere a repentaglio la propria attività economica» solo per guadagnare alcuni centimetri. Va inoltre detto che il settore della ristorazione «è stato lodato sia dalla polizia cantonale, sia a livello federale per come sta seguendo le regole»
In realtà sia in Ticino, sia nel resto della Confederazione sono stati registrati strappi alle regole: in merito alle immagini provenienti da grandi città elvetiche che mostravano molte persone ammassate al di fuori di alcuni esercizi pubblici durante il sabato sera, Koch ieri è stato perentorio: «È un rischio per chi non mantiene le distanze ed è un pericolo anche per i proprietari dei bar». E questo perché grandi gruppi di persone rendono impossibile la ricostruzione di una catena di contagio. «C’è stato un caso in Corea del Sud dove una sola persona [frequentatrice di alcune discoteche, ndr] ha generato 5'000 potenziali infetti». Se assembramenti del genere dovessero ripetersi in maniera regolare in Svizzera «le autorità cantonali dovranno chiudere questi ritrovi», ha confermato il delegato per il Covid-19.