Il capo del Dfe Vitta: nelle prossime settimane quadro attendibile sull'impatto per le finanze pubbliche. Bagnovini (impresari): in quarantena niente salario
Quantificare l’impatto dell’epidemia di coronavirus sulle finanze cantonali è prematuro, ma azzardare uno scenario è già possibile. «Saremo confrontati con un peggioramento di svariate decine di milioni di franchi – prevede, interpellato dalla ‘Regione’, il direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta –. Un certo rallentamento della crescita economica lo avevamo già registrato con le stime del Bak in gennaio, rallentamento che si rifletterà sul gettito fiscale. Questa tendenza, alla luce di ciò che sta avvenendo, non potrà che essere rivista al ribasso». Chiaramente, rileva il presidente del Consiglio di Stato, «solo nelle prossime settimane si potrà avere un quadro preciso, attendibile degli effetti di questa situazione sulle finanze statali».
Intanto per le casse del Cantone c’è una buona notizia. Ovvero i milioni che arriveranno dalla Banca nazionale svizzera: una cinquantina in più rispetto alla precedente convenzione tra Confederazione e Bns. «Un dato positivo di questi tempi e una boccata d’ossigeno», commenta Vitta. Una boccata d’ossigeno «in un momento difficile anche per l’ente pubblico a livello finanziario». I soldi provenienti dall’utile della Banca nazionale, prosegue il capo del Dfe, «dovrebbero permetterci anche di far fronte alle spese del sistema, nei suoi diversi ambiti, per arginare l’emergenza coronavirus: penso ad esempio all'Ufficio del medico cantonale e a quello economico». A proposito di economia, come intende muoversi il Dfe? «Tramite la Divisione economia e attraverso i contatti con le imprese, le associazioni economiche e quelle sindacali, stiamo monitorando costantemente la situazione per un suo aggiornamento in tempo reale. Spero poi che Berna – continua Vitta – possa allentare, considerato questo particolare momento, i criteri per l’accesso allo strumento del lavoro ridotto, che andrà comunque gestito in maniera razionale e con un certo rigore. Ci sono inoltre tutte le misure legate al mercato del lavoro e con i Cantoni e la Confederazione si potranno discutere e se necessario adottare ulteriori strumenti. In ogni caso occorre valutare bene le varie misure affinché si rivelino efficaci».
«Il consiglio di Stato, tutto sommato, ha fatto una buona comunicazione. Alcune aziende però si aspettavano qualche indicazione in più per quanto riguarda la gestione di eventuali casi concreti per programmare al meglio l’attività produttiva nei prossimi mesi». È quanto ci dichiara Stefano Modenini, direttore dell’Associazione industrie ticinesi (Aiti) a proposito delle misure messe in atto dal governo ticinese per fronteggiare l’emergenza coronavirus. «La questione prettamente sanitaria, con l’invito a rispettare le norme igieniche di base, è chiara e assodata. È mancata, probabilmente, un’indicazione più precisa sulle misure per mitigare le conseguenze economiche», continua Modenini che precisa comunque che il raggio di azione del Cantone in questo campo è piuttosto limitato. «Il ricorso alle indennità per lavoro ridotto è certamente la misura più efficace, ma dipende da norme federali. È la Seco (Segreteria per l’economia) a valutare le richieste delle aziende che sono in aumento già da qualche settimana e dovute – indirettamente – agli effetti del coronavirus sull’economia cinese», afferma il direttore dell’Aiti che ricorda che il rallentamento della Cina stava già influendo negativamente sul manifatturiero svizzero. E proprio per far fronte a questo calo del ritmo produttivo si fa capo allo strumento del lavoro ridotto. Proprio ieri, all’inizio della sessione primaverile delle Camere federali, il consigliere nazionale del Ppd Marco Romano, ha chiesto al governo di valutare la possibilità di ridurre il termine di preannuncio da parte delle aziende da 10 a tre giorni. Anche il termine di attesa mensile dovrebbe essere ridotto da due a un giorno. Nel contempo Romano ha anche chiesto di estendere il lavoro ridotto fino a sei mesi, nel caso la situazione di crisi dovesse perdurare. Il Consiglio federale dovrebbe rispondere lunedì prossimo nell’ambito dell’ora delle domande.
Ma oltre a queste misure di crisi, ci si pone anche al problema del pagamento dello stipendio in caso di assenza dal lavoro per quarantena imposta dall’autorità. A questo proposito è pendente una interpellanza del gruppo politico Mps-Pop-Indipendenti che, tra le altre cose, chiede “in caso di quarantena di un dipendente il versamento del salario deve essere garantito dai datori di lavoro”. «Come Aiti ci siamo posti il problema e seguendo la prassi della Seco, riteniamo che la quarantena in caso di pandemia sia un rischio aziendale e quindi a carico del datore di lavoro», risponde Modenini.
Di parere opposto la Società svizzera degli impresari costruttori (Ssic). «In caso di malattia, il datore di lavoro è obbligato a pagare il salario», afferma da noi contattato Nicola Bagnovini, direttore della sezione ticinese della Ssic. Un principio derivante sia dal codice delle obbligazioni (art. 324a CO) sia dal Contratto nazionale mantello (art. 64 Cnm). «Se il dipendente non è malato, ma non può venire al lavoro a causa di un ordine da parte dello Stato (divieto di viaggio, quarantena, coprifuoco, ecc.), il datore di lavoro non è obbligato a continuare a pagare il salario, siccome la causa dell’assenza non è legata al dipendente stesso», continua Bagnovini. In questo caso si applica il principio ‘niente lavoro, niente stipendio’ come già confermato da una sentenza del Tribunale del lavoro di Zurigo. E allora chi dovrà pagare? «Un intervento finanziario dell’autorità (disoccupazione parziale) sarebbe auspicabile», conclude Bagnovini precisando che fino a oggi non c’è stato nessun caso di questo tipo.