Storie di donne e uomini il cui destino si intreccia sotto il segno di questa antica tradizione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana
Abbiamo un anonimo filosofo, chiamiamolo Ismaele. Come quell’uomo che un giorno salì sulla Moby Dick del capitano Achab che cacciava balene e voleva vendicarsi della Balena bianca.
Ismaele è un amico. Quando è nata mia figlia lui mi ha detto che è salito su un albero da tanto che era felice. Mi ha detto anche, un giorno, che senza il bosco lui sarebbe morto. Ha detto proprio così: sarei morto.
Lui pensa che ognuno di noi nella vita scelga delle facoltà, come chi fa gli studi universitari. Lui ha scelto le più antiche del mondo: pastorizia, coltivazione, caccia. Ma non sa se vuole parlarne, perché la caccia è la più personale, la più intima delle sue scelte.
Ha cominciato con i suoi due fratelli. Prima da piccolo, con i sassi, provando a colpire gli uccelli. Mai uno che mirasse giusto. Poi un giorno il fratello maggiore è arrivato e ha estratto dalla tasca un fazzoletto insanguinato, con fierezza. Ismaele ha capito allora che la caccia ha due volti: il gioco e il risultato.
Ismaele è andato a caccia per anni, con i suoi fratelli. All’inizio hanno portato in montagna un bidone blu e ci hanno nascosto sacchi a pelo, giacche pesanti, candele. Per tutti quegli anni ogni 7 settembre salivano e trovavano le loro cose, con quell’odore lì. Mai avrebbero cambiato territorio, mai avrebbero ammazzato un esemplare femmina o un piccolo. Giocavano nel bosco, come quando tu eri un Indiano e io un Cowboy e facevamo una capanna. Camosci, soprattutto camosci, perché sono difficili, sono furbi, sono agili, ci metti tutto il giorno o anche di più ad avvicinarlo. E poi non sai mai alla fine chi vince.
Il ricordo più bello di Ismaele è di una mattina, dopo una veglia solitaria nel bosco sotto un abete. Al mattino era salito a prendere il primo raggio di sole sul crinale in alta montagna. Venti metri sotto, si affaccia un camoscio. Infreddolito anche lui. La brezza del fondovalle gli impediva di sentire l’odore dell’uomo.
Sono restati lì, tanto, insieme, finché il sole si è scaldato.
Questo è il ricordo più bello, mi dice Ismaele. Ecco perché non sa se vuole parlarne, perché la caccia per lui è il gioco e il suo ricordo più bello è quando non ha sparato.
Nello Bruni è patrizio di Olivone; per 26 anni è stato esperto agli esami di caccia e ai candidati ha detto sempre: la cosa più importante è l’etica. Non si caccia per vantarsi della quantità di carne presa. Non siamo più una tribù primitiva che viveva di quello, per mangiare e per scegliere il capo. Anche lui, però, ha la passione: da giovane aveva tre settimane di vacanza l’anno, i bambini piccoli, ma una settimana era dedicata alla caccia. «Ho cominciato con la marmotta, perché è la marmotta che mi ha insegnato mio papà. Mi piace perché è furba, devi andarle vicino e non è facile. Poi, certo, è carina e a chi non è cacciatore può dispiacere vederla abbattuta».
Nello Bruni caccia ora soprattutto il camoscio perché richiede abilità, forma fisica, intelligenza. Non vuole un’arma potentissima, che mira da lontano. Da lontano la lotta è troppo impari e poi rischi di ferirlo, così l’animale scappa e magari va a marcire da qualche parte. Non ci vogliono armi sempre migliori, non ci vogliono cacciatori ingordi che non giocano, che non conquistano. Ci vuole etica, dice. Le donne questo lo capiscono, mi racconta. Ogni anno ce ne sono due o tre che prendono la patente: loro la pensano come i vecchi, cacciano per piacere e non per accumulare tanti trofei. «Molti giovani invece spesso hanno la brama di cacciare e per loro va bene anche da lontano, quando l’animale è fermo e non può né vederti né sentirti: cosa che per me è senza interesse. Molti di questi giovani cacciatori si spostano di continuo, mandandosi messaggi da una valle all’altra. Per me invece il bello è stare nel mio territorio, passare una giornata nei miei boschi sul Lucomagno, con l’adrenalina di un tête-à-tête con l’animale», dice Bruni.
Nello ha un figlio cacciatore, Vasco, e una figlia vegetariana, Maika. Maika mi spiega che non condanna la caccia perché fa parte delle tradizioni della sua famiglia, della sua valle, ma non di lei: è più una linea patriarcale che non l’ha sfiorata. Non la condanna perché sente un rispetto tra cacciatore e animale: ha regalato al papà Il peso della farfalla di Erri De Luca, che parla di un duello tra due anziani, un camoscio e un cacciatore.
C’è una relazione tra natura e cultura, tra mestiere e antiche conoscenze, tradizione e modernità: è la cucina. La cucina si serve dalla natura, da sempre, poi trasforma, secondo i gusti, le tecniche, le stagioni, gli utensili. Sembra più facile raccogliere, ma ai nostri giorni forse è diventato più difficile distinguere e poi trovare le erbe commestibili, quelle che crescono spontaneamente. Non le conosciamo più. Una volta la natura era una dispensa e una farmacia, in cui bastava ricordarsi degli insegnamenti della nonna e allungare la mano per avere di che mangiare, curarsi, ottenere ciò di cui il corpo ha bisogno. C’è divertimento a «fare con quello che si ha» e Meret Bissegger, una volta che ha trascorso un’estate all’Alpe, ha preso gusto a ingegnarsi con le erbe che trovava. Insalata e verdura fresca, a 1’500 metri non crescono. Quindi: cerchiamo dell’altro.
Adesso ha 14 punti Gault&Millau e cucina da anni, scrive libri, porta le persone nei boschi e nei prati per imparare a cogliere ciò che vive senza che siamo stati noi umani a volerlo. C’è qualche similitudine con il cacciatore? Manca il gioco del rincorrersi, in compenso si evita sangue. «Amo molto cucinare la selvaggina», precisa, per non essere stigmatizzata come quella delle erbe, «perché so cosa mangiano gli animali selvatici. Loro fanno come me: cercano le erbe che preferiscono, tra quelle disponibili nel territorio dove vivono... proprio come io vado a raccogliere quello che mi serve per i miei piatti».
Il cacciatore è utile al bosco
Joanna Schönenberger è ingegnere forestale e capo Progetto Orso del WWF Svizzera. Sta a Breno, ha tre figli piccoli e quest’anno è andata a caccia.
Da molto tempo ha la patente ma non ci va sempre. «Non penso che ci sia un pro e un contro la caccia, piuttosto ci sono vari punti di vista. La caccia è utile, perché aiuta l’equilibrio tra bosco e ungulati. Da noi ci sono troppi cervi, caprioli, cinghiali. Mangiano quello che è importante per tenere la terra: il bosco, fondamentale per evitare le frane. Questo è il punto di vista razionale. Poi c’è quello emotivo: anche per me è difficile veder morire un animale, perché tutti vogliamo vivere. È la stessa cosa con gli animali d’allevamento, al mattatoio; anzi, forse come qualità di vita e di morte è meglio essere un animale selvatico. C’è qualcosa, nella caccia, che mi piace più di tutto.
La scienza che vi sta dietro: ho imparato tanto, facendo la patente, sulla fauna del bosco, sul bosco stesso. Molte cose che non sapevo, e tra gli alberi sono cresciuta e poi ho studiato da ingegnere forestale! Quando entro nel bosco per cacciare, ho uno scopo, quindi sono portata ad aguzzare occhi, orecchie, naso. Osservo molto di più che se vado a fare una passeggiata, anche se vado con il cuore aperto e con la mia passione per l’ecosistema della foresta. Cacciando divento veramente parte della montagna. Anche ieri, che pioveva, c’erano i lampi, io ero beata sotto l’acqua, col sorriso».
«Sono andata anche nel canton Lucerna a vedere come si fa», continua Joanna. «Lì ci sono le riserve di caccia, si fanno le battute in tanti, con il gilè colorato e il corno. È una tradizione nobile: quando l’animale muore, i cacciatori gli si mettono intorno e pronunciano parole di ringraziamento, suonando un corno diverso per ogni animale.
A ogni specie si mette in bocca un rametto di una pianta diversa, quella che più le piace. Anche questo è un aspetto che apprezzo: il rispetto verso l’animale abbattuto. Anche se da noi non si usa suonare il corno per lui, anche se qui la caccia discende piuttosto da una tradizione di necessità, si rispetta la bestia, per come la si raccoglie, come la si cucina, senza buttare via niente.
E se invece non si riesce a prenderla, la si ammira, perché è stata migliore lei».
A Ismaele piace quel momento la sera quando calano le tenebre. Dice che c’è un attimo, breve, di silenzio, poi si sveglia quel nuovo teatro della notte.
Ismaele sta in ascolto, vede chi a quell’ora si sveglia e comincia a vivere. È stanco, ma aspetta la campana dell’Ave Maria, che suona alle otto e mezza. Quando suona, il suo respiro si riposa e inizia a scendere, verso casa. Soddisfatto, comunque è andata.