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‘Cresciuti fra i binari’, la vita ai Domus di Chiasso

Un libro racconta l’emozionante vissuto di chi ha abitato i tre palazzi accanto alla ferrovia ai margini della cittadina di confine di allora

Giuseppe Valli e Luca Bontà (Ti-Press)
19 ottobre 2021
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Una generazione felice, come si legge nella prefazione del libro: “Nata negli anni Cinquanta, in pieno boom economico e in una Chiasso centro pulsante con stazione internazionale e attività economiche che generavano lavoro per tutti", scrive nel perché della pubblicazione Giuseppe Valli, già insegnante di italiano alla scuola media con la passione per la scrittura e per questo curatore del progetto editoriale insieme a Yolanda Moser. Titolo "Domus”, ovvero i tre palazzi (fra i numeri civici 3, 5 e 7 di via Pasquale Lucchini) allora abitati da famiglie di ferrovieri. Un testo (Edizioni Progetto Stampa) che sente sua «creatura» Luca Bontà, fisioterapista e agopuntore con studio a Mendrisio, e un passato di bambino e adolescente in uno di quei 36 appartamenti pieni di storia e di ricordi, in quella “comunità ben definita” vicina al pian Faloppia.

«Il progetto – ci racconta con gli occhi vivaci e soddisfatti di chi sta per condividere una bella testimonianza – nasce nel 2016 dopo un incontro casuale con Giuseppe, mio compagno di giochi di quei tempi. Lui figlio unico, era per me una presenza fraterna. Nel rincontrarci il pensiero è andato subito alla nostra infanzia trascorsa ai Domus. A me, del resto, mancava solo un input, l‘avevo già tutto in testa... Abbiamo così organizzato un aperitivo con quegli ’ex bambini’, oggi quasi tutti pensionati, in molti nonni! Ne sono nati dieci racconti. Il tutto, va detto, ha preso vita dalle emozioni piuttosto che da una volontà di divulgazione... quello è venuto dopo. È stato, quindi, tutto quel vissuto che ci è rimasto a tutti nel cuore a far sì che il libro nascesse. Personalmente, infatti, avevo spesso la sensazione di poter perdere una parte di passato, di non poterci ritornare sopra e condividerlo con quelli che eravamo stati. Volevo perciò recuperare questo passato e con questo libro ci siamo davvero riusciti».


I Domus (Ti-Press)

Da quel primo incontro il passo, seppur non semplice, è stato breve. Creato il gruppo Whatsapp, si sono via via aggiunti i contatti già noti e, con il passaparola, recuperati gli altri, fino al secondo incontro allargato: «Quando abbiamo optato per il libro era come se il maestro ci avesse dato un compito. In molti eravamo perplessi, refrattari, intimoriti dalla pagina bianca. Poi qualcuno ha cominciato a buttare giù i suoi pensieri, come Leonilde Calzascia (a più riprese campionessa di volano ai tornei di via Lucchini), che il racconto lo ha scritto addirittura a mano. Dopo di lei diversi si sono ‘sciolti’ e ne è uscito questo originale testo».

Non solo però ricordi, il libro porta in sé una chiara eredità, quella del cambiamento di una cittadina di confine confrontata successivamente con il progresso economico e la globalizzazione: «Il quartiere dei Domus con gli anni è stato urbanizzato e massacrato – non manca di ricordarci Bontà –. Se da una parte è stata una invidiabile idea, con la creazione di spazi abitativi dove l’inquilino è partecipe tramite l’acquisto di azioni della struttura e dunque anche responsabile, dall’altra poi quel territorio, vissuto come infanzia di giochi, e quella natura, ci sono stati letteralmente portati via da sotto i piedi. La ferrovia ci è ‘entrata’ in casa, tanto che qualcuno, senza esito, aveva anche ricorso, infastidito giorno e notte dalle manovre dei treni. La fortuna stava nel fatto che i Domus offrivano un giardino, mentre gli altri palazzi intorno non avevano neppure quello... lati positivi e negativi che ad ogni modo hanno lasciato un ricordo e, soprattutto, il piacere di quel ricordo che continua a essere presente» annota Bontà.

Opera del noto architetto ticinese Augusto Jäggli (i cui progetti sono conservati all’Archivio di Stato), i Domus avevano un chiaro ruolo geografico, appena ai margini della Chiasso di allora: «Siamo cresciuti fra i binari. Quando è arrivata la ferrovia di Chiasso noi l’attraversavamo. Erano 25, 30 binari con i treni che facevano manovra e noi avanti e indietro come quegli animali che attraversano ai giorni nostri pericolosamente l’autostrada. Lo abbiamo fatto fino a quando hanno messo le reti perché fino ad allora non c’erano protezioni... Ho vissuto lì una quindicina di anni, dalla prima infanzia fino a quando, a 16 anni, ho cominciato a lavorare all’ospedale di Bellinzona come aiuto fisioterapista. I miei genitori invece sono rimasti fino alla loro morte. Con gli anni il quartiere è cambiato. Quando siamo arrivati noi tutti gli appartamenti erano occupati, vi era un gran movimento di bambini, di giochi e di realtà. Quando sono andato via era già in fase di cambiamento... tanto che bambini non se ne vedevano quasi più...».

I Domus, viene fuori anche dai racconti presenti nel libro, erano considerati veri e propri esempi abitativi: «Avevano i servizi, una terrazza, l’acqua calda. Pensiamo che allora non era proprio una cosa comune, c’erano del resto bambini che vivano altrove e che venendo a scuola odoravano di camino, di stufa. Noi invece avevamo già il riscaldamento, eravamo all’avanguardia. Anche se questo vantaggio ora non c’è più restano appartamenti luminosi e vivibili. Un’altra grande opportunità era l’orto che significava avere sempre verdure fresche. Essendo mio papà originario della Leventina ho vissuto quella coda di civiltà contadina, spesso aspra e scomoda, e ho dunque condiviso con i miei genitori il ‘lusso’ di trovarci a Chiasso in un appartamento. L’unica cosa che legava i due mondi erano le castagne arrosto che in città anziché sulla stufa mettevamo a cuocere nel forno».

Per Luca Bontà e per chi ha contributo a questo prezioso testo più che la nostalgia sono le emozioni ad aver guidato la loro penna: «Se dentro è rimasta una cicatrice, il libro ha avuto un importante valore terapeutico. Perché come diceva Gabriel Garcia Marquez “la vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla". Oppure come spiegava Rigoni Stern "i ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torpido resta sul fondo, per questo non bisogna agitare troppo la bottiglia”. In quello che è stato il nostro giardino pubblico anarchico, abbiamo giocato tanto, facendo anche qualche cavolata, ma siamo stati pienamente liberi. I nostri genitori ci mandavano fuori con la chiave al collo e potevamo rientrare quando volevamo. Purtroppo, spesso, ti accorgi dopo di quello aveva un valore prima. Sul momento, in quegli anni, eravamo dei semplici figli di impiegati della ferrovia, ci insegnavano la disciplina e il rispetto del prossimo. Oggi quegli anni sono parte del nostro vissuto, restano dentro noi stessi e hanno un loro valore. Le nostre famiglie probabilmente avrebbero preferito abitare in case di loro proprietà, ma il fatto che abbiano dovuto condividere questa esperienza con altre famiglie ha fatto sì che poi noi, bambini, condividessimo a nostra volta un’esperienza che non abbiamo mai dimenticato e che ora finalmente è riaffiorata».