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Si procacciava rendite Ai a cui non aveva diritto, condannata

La Corte delle Assise criminali ha inflitto alla 63enne una pena di 12 mesi sospesi per il reato di truffa e il risarcimento di 220mila franchi

In sintesi:
  • La donna aveva svolto delle mansioni al ristorante del marito mentre beneficiava dell’indennità al 100%.
  • Condannato anche, come complice, l’amministratore della società che gestiva il ristorante
(Ti-Press/Archivio)
20 novembre 2024
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Dovrà risarcire oltre 220mila franchi all’Ufficio dell’assicurazione invalidità (Ai) per aver svolto delle mansioni al ristorante del marito mentre beneficiava dell’indennità al 100%. È quanto tocca a una cittadina portoghese di 63 anni, condannata stamattina dalla Corte delle Assise correzionali di Lugano, presieduta dal giudice Amos Pagnamenta, per truffa aggravata a 12 mesi di carcere sospesi condizionalmente per un periodo di prova di due anni. «La colpa dell’imputata è grave – ha affermato in aula Pagnamenta –. Ha ingannato l’Ai per anni causando un danno allo Stato. Danno che evidentemente si ripercuote su tutti i contribuenti. Lo ha fatto per scopo di lucro interrompendo il suo agire esclusivamente perché è stata sorpresa dagli investigatori».

Insieme a lei, in veste di coimputato, anche l’amministratore della società che gestiva il ristorante – un cittadino svizzero 72enne –, condannato a pagare 90 aliquote giornaliere da 30 franchi ciascuna per aver aiutato la donna a ingannare l’Ai, e quindi di essere complice nella truffa. Per i due, il procuratore pubblico Daniele Galliano, durante il processo tenutosi il 7 ottobre, aveva chiesto pene rispettivamente di 16 e 6 mesi, entrambe sospese in favore della condizionale. Da parte loro i difensori – Sebastiano Paù-Lessi per la donna e Marco Garbani per il 72enne – avevano chiesto il totale proscioglimento dalle accuse.

Per la Corte, ha motivato il giudice, «risulta in modo inequivocabile che l’imputata svolgeva diverse mansioni presso l’esercizio pubblico. Di fatto, ha svolto per anni un’attività tipica di una cameriera. Avrebbe dovuto indicare all’Ai quanto faceva, anche se non percepiva uno stipendio, permettendo così alle autorità di valutare il suo reale grado d’invalidità, la sua eventuale collocabilità e la rendita a cui avrebbe avuto diritto». A ogni modo, ha precisato, «nessuno sostiene che l’imputata non soffra di disturbi della salute, ma non era invalida nella misura del 100% e si procacciava rendite a cui non aveva diritto».

A differenza di altri casi di falsi invalidi, i problemi di salute dell’imputata sono stati riconosciuti. In seguito a queste complicazioni la donna ha sviluppato anche dei disturbi depressivi: per contrastarli, un medico le aveva suggerito di recarsi al ristorante gestito dal marito, per dare una mano con piccole mansioni e stare a contatto con le persone. Il punto è che si recava al ristorante, per circa 20 ore settimanali, a svolgere quelli che la Corte ha definito lavori da cameriera, indicando però nei formulari di revisione dell’indennità, di non aver svolto alcun lavoro. Un’agenzia investigativa, su mandato dell’Ai, l’ha poi vista servire più piatti alla volta, prendere ordinazioni, fare la spesa e spostare sedie e tavoli.

In conclusione, Pagnamenta ha affermato che «l’imputata non sembra nemmeno volersi assumere le proprie responsabilità». Per quanto riguarda invece il 72enne, è stato ritenuto complice dell’agire della donna, seppur con una colpa di gravità lieve: «Lui l’ha aiutata ad allestirei formulari per l’Ai ma sapeva e vedeva cosa era in grado di fare quotidianamente». Nei confronti della 63enne è stato infine riconosciuto il caso di rigore per quanto riguarda l’espulsione dalla Svizzera.

Alla sbarra anche un 44enne: in sei anni ha ingannato assicurazioni e banche per 160mila franchi

Nel pomeriggio si è svolto un procedimento abbreviato di natura simile. Alla sbarra in questo caso ci è finito un 44enne, cittadino portoghese, che non solo ha truffato l’Ai ma anche la Cassa disoccupazione Unia, l’Istituto delle assicurazioni sociali e una banca per un totale di quasi 160mila franchi sull’arco di sei anni, dal 2014 al 2020. L’uomo, difeso dall’avvocato Nadir Guglielmoni, è stato condannato a 18 mesi sospesi per due anni più una pena pecuniaria di dieci aliquote giornaliere da 30 franchi ciascuna. Pena conforme a quanto proposto dalle parti in accordo fra loro. Tra Guglielmoni dunque e il procuratore pubblico Daniele Galliano. Gli è stata tuttavia risparmiata l’espulsione dal territorio elvetico, in quanto è stato riconosciuto il caso di rigore. In estrema sintesi – il 44enne affermava, con l’aiuto di due ‘complici’ – di ricevere uno stipendio fittizio (e più gonfio) da parte della ditta che lo aveva assunto per un programma di reinserimento professionale, ricevendo così delle indennità di disoccupazione maggiorate. Riceveva anche dei rimborsi da parte dell’Ai per dei corsi che non ha mai seguito all’interno della medesima ditta. Lo stesso ha fatto nei confronti di una banca – in qualità di titolare di un’azienda, ora fallita – per ottenere crediti Covid. In pratica inventava somme inesistenti, per trarne indebitamente guadagno con prestiti, indennizzi e rimborsi. In aula l’imputato ha ammesso i fatti.

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