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‘Prendeva l’Ai ma lavorava’, chiesto rimborso di 350mila franchi

Una 62enne è stata processata a Lugano con l’accusa di aver truffato l’Assicurazione invalidità per 15 anni, ma lei nega di averlo fatto per arricchirsi

I problemi di salute della donna sono oggettivi e comprovati
(Ti-Press)
7 ottobre 2024
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Rischia di dover restituire oltre 350mila franchi all’Assicurazione invalidità (Ai), per aver svolto delle mansioni al ristorante del marito mentre beneficiava dell’indennità al 100%. La donna, una cittadina portoghese di 63 anni, è stata processata quest’oggi alle Assise correzionali di Lugano. Insieme a lei, in veste di coimputato, anche l’amministratore della società che gestiva il ristorante – un cittadino svizzero 72enne –, accusato di averla aiutata a ingannare l’Ai, e quindi di essere complice nella truffa. Per i due, il procuratore pubblico Daniele Galliano ha chiesto pene rispettivamente di 16 e 6 mesi, entrambe sospese condizionalmente per un periodo di prova di due anni. Per quanto riguarda l’espulsione della donna, il pp ha chiesto che venga applicato il caso di rigore, dato che la 63enne vive in Svizzera da oltre 40 anni. In aula, in veste di accusatrice privata, anche una rappresentante dell’Ai, che ha avanzato la richiesta di rimborso di quanto beneficiato dall’imputata negli ultimi 15 anni, ossia circa 349mila franchi, ai quali vanno aggiunti circa 13mila franchi, derivanti dalle spese per l’indagine svolta contro di lei. Da parte loro i difensori – Sebastiano Paù-Lessi per la donna, Marco Garbani per il 72enne – hanno chiesto il totale proscioglimento dalle accuse. La sentenza dovrebbe venir pronunciata dal giudice Amos Pagnamenta nel corso della settimana.

Lavorava per combattere la depressione

A differenza di altri casi di falsi invalidi, i problemi di salute dell’imputata sono riconosciuti da ambo le parti. In seguito a questi problemi la donna ha sviluppato anche dei disturbi depressivi: per contrastarli, un medico le aveva suggerito di recarsi al ristorante gestito dal marito, per dare una mano con piccole mansioni e stare a contatto con le persone. Il punto è che si recava al ristorante, per circa 20 ore settimanali, a svolgere quelli che l’accusa definisce lavori da cameriera, indicando però nei formulari di revisione dell’indennità, di non aver svolto alcun lavoro. Un’agenzia investigativa, su mandato dell’Ai, afferma di averla vista servire più piatti alla volta, prendere ordinazioni, fare la spesa e spostare sedie e tavoli. Mentre Garbani ha puntualizzato che la donna non ha percepito alcuno stipendio, e che quindi di fatto non si trattava di lavoro, il pp ha replicato che l’attività da lei svolta costituiva comunque un vantaggio economico per il marito. La donna contesta tutte le accuse, affermando di averlo fatto per il suo stato mentale e non per trarre indebito profitto.