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‘Quasi tutto il Malcantone ha un’impronta celtica’

Ne è convinto il glottologo e linguista Guido Borghi, che in una recente serata pubblica a Curio ha esposto le sue tesi. Lo abbiamo intervistato

Una regione passata al setaccio linguistico. Nel riquadro, il professor Guido Borghi
(Ti-Press)
25 luglio 2024
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Tutto il Malcantone, o quasi, ha una forte impronta celtica. A dirlo è il professor Guido Borghi, glottologo e linguista esperto in materia. Analizzando in particolare i toponimi, ossia i nomi di luogo, è giunto a queste conclusioni, che ha presentato in una recente serata pubblica al Museo del Malcantone di Curio. Lo abbiamo intervistato.

Quali toponimi malcantonesi tradiscono un’origine celtica?

È doveroso premettere che, quando un nome di luogo non è immediatamente comprensibile, e a volte anche quando lo è o sembra esserlo, come Malcantone, può essere interpretato in più di una delle lingue che sono state parlate sul luogo. Perciò è normale che esistano alternative etimologiche in reciproca contrapposizione, più spesso [neo]latine ‘contro’ prelatine – quindi, nelle nostre regioni, celtiche – e talvolta anche con l’aggiunta di una terza possibilità, germanica, in particolare gotica, longobardica o francone. Ciò detto, quasi tutti i macrotoponimi (i nomi dei luoghi maggiori – capoluoghi di comune e frazioni più grandi – tranne poche eccezioni come Castelrotto, Fescoggia e Monteggio) soddisfano i criteri per essere riconosciuti come celtici o comunque passati attraverso il celtico antico: Agno, Aranno, Arosio, Astano, Banco, Barico, Bedigliora, Beride, Bioggio, Biogno, Bombinasco, Breno, Cademario, Caslano, Croglio, Curio, Doné, Iseo, Lisone, Magliaso, Miglieglia, Mugena, Neggio, Nerocco, Novaggio, Sessa, Pura, Vello, Vernate, il fiume Tresa, i monti Lema e Tamaro e lo stesso Malcantone.

È l’unica derivazione possibile?

Di alcuni si ha anche una possibilità interpretativa latina o neolatina. Ne è sempre stato convinto sostenitore il compianto amico professor Ottavio Lurati. Il mio ruolo è di approfondire la prospettiva prelatina: celtica, ma più precisamente dall’indoeuropeo preistorico attraverso il celtico. Come ad esempio Valenza, Piacenza, Potenza, non sono semplicemente toponimi italiani, ma latini divenuti col tempo neolatini (piemontesi, emiliani, italiani, lucani), così, quando databili (per esempio nei fortunati casi di Vernate e Astano), i toponimi celtici risultano coniati in epoca ancor più antica, indoeuropea preistorica (entro il III millennio a.C., verosimilmente già prima): sono dunque toponimi indoeuropei preistorici, divenuti celtici nel II millennio a.C., partecipando alla trasformazione – caratteristica di buona parte dell’Europa centrale e soprattutto occidentale – dell’indoeuropeo locale in celtico.

Come è riuscito a ricostruire queste radici e anche l’evoluzione di questi nomi?

La glottologia studia anzitutto le trasformazioni dei suoni delle lingue nel corso del tempo. Scoperte e capite queste trasformazioni, si può ripercorrere a ritroso nel tempo come è cambiata ciascuna parola – compresi i nomi, anche di luogo – e quindi ricostruire come doveva suonare mille, duemila, tre-quattromila anni fa: è la ricostruzione fonetica. A volte è possibile più di una ricostruzione. Una volta ricostruito come doveva suonare la parola (o il nome) quattromila anni fa, si cerca sui dizionari di tutte le lingue indoeuropee se c’è qualche parola che, attraverso altre specifiche trasformazioni fonetiche, continua quella stessa ricostruita.

Può fare un esempio?

Per esempio, da Caslano si ricostruisce che tre-quattromila anni fa suonava in modo tale che la sua prima parte coincideva con la parola che, dopo due o tre millenni, è diventata l’irlandese cas – che significa, fra le altre accezioni, ‘a picco’ – e la sua seconda parte con l’aggettivo che, un millennio e mezzo dopo, è diventato in gallico lānŏ-‘piano’ e in latino plānŭs (in italiano ‘piano’). Questa ricostruzione fornisce una plausibile descrizione di Caslano (‘pianeggiante e a picco’), il cui territorio è per metà assolutamente piano e per l’altra metà caratterizzato da un monte che si affaccia a picco sul lago. L’ipotesi alternativa rimane invece ciò che si è sempre pensato: che sia un nome neolatino, da Castellano.

L’impronta celtica è stata forte o debole?

Se quasi tutti i macrotoponimi sono passibili di etimologia indoeuropea attraverso la fonetica celtica, l’impronta celtica è stata forte; la stessa situazione presentano d’altronde anche i territori vicini. Perciò tale impronta, forte in assoluto, è stata ‘normale’ se misurata in relazione al resto della regione. Sia in senso stretto – il Bacino del Ceresio e della Tresa – sia molto esteso, dal Friuli alle Isole Britanniche, passando per le intere Austria, Svizzera e Francia nonché il Bacino Padano, la Liguria, il Belgio.

Analizzando la toponomastica di un territorio emergono anche altre influenze linguistico-culturali. Possiamo riassumerle?

Bisogna sempre ricordare che l’origine indoeuropea preistorica della toponimia (poi passata attraverso il celtico) è solo uno degli scenari possibili; l’altro è che invece i nomi – tranne, ovviamente, in Irlanda e Scozia – siano (neo)latini. Le attestazioni scritte cominciano quasi sempre (molto) dopo l’inizio della fase romana e purtroppo l’analisi glottologica non permette una decisione definitiva fra le due alternative (o tre, se entrano in gioco le etimologie germaniche, come nel caso di Fescoggia). Nessuno di noi era presente all’epoca; possiamo solo elaborare ricostruzioni il più possibile rigorose, ma alternative fra loro (come per Malcantone e Caslano; anche Gentilino può sembrare un diminutivo di gentile, ma in celtico *Gĕntĭ-līnŏ- significa ‘pieno di gente’).

Qualcosa di certo si potrà però dire.

Sì, è possibile fare a meno di altre ipotesi prelatine – basche, etrusche, semitiche – diverse da quella indoeuropea attraverso il celtico, che include anche le lingue degli antichi Liguri e buona parte dei Reti. Gli unici tre strati linguistici dimostrabili per la (prei)storia linguistica della regione sono, in ordine di tempo: l’indoeuropeo preistorico (ivi trasformatosi in celtico antico), poi il latino (divenuto, sul posto, il lombardo [pre]alpino) e infine lo strato più promettente per i cognomi di etimologia opaca, il germanico (dei Goti, Longobardi e Franchi). I toponimi sono in maggioranza di origine (neo)latina. Soprattutto i nomi di piccole frazioni, tuttora trasparenti in ticinese o anche in italiano. Ma quasi tutti i macrotoponimi hanno anche o solo un’ottima etimologia prelatina, ossia indoeuropea attraverso il celtico. I nomi – conosciuti solo sul posto – delle località più piccole, se non rappresentano fondazioni romane o medievali, devono essere stati tradotti dal celtico al latino fra il II secolo a.C. (prima introduzione del latino) e il V-VI d.C. (quando il dialetto prelatino è stato abbandonato). I macrotoponimi erano invece noti già in precedenza anche ai Romani e quindi non hanno avuto bisogno né possibilità di essere tradotti. Quando possono essere interpretati anche – ma non esclusivamente – in latino, è probabile che si tratti di coincidenze secondarie, come per esempio le fantasie infantili su Crema, Cremona, Tortona, Ventimiglia, Mosca.