Un giro a Lugano non è una passeggiata per tutti: Denise Carniel ci racconta in un reportage cosa implica vivere in base alle scelte altrui
È di 13,6 milioni di franchi il cospicuo credito che il Consiglio comunale di Lugano ha approvato il novembre scorso per la messa a norma delle fermate degli autobus secondo la Legge federale sull’eliminazione di svantaggi nei confronti delle persone con disabilità (LDis). Su 228 saranno 32 le fermate interessate dagli interventi. Una ‘rivoluzione’, dunque, parziale. Ma cosa implica questo per chi dipende dai collegamenti e dai mezzi di trasporto? Cosa significa sottostare alle scelte altrui per spostarsi, per vivere la propria città? Ce lo svela Denise Carniel nel nostro reportage in giro per Lugano. «Con quelle 32 fermate io posso andare da A a B, ma se io volessi andare a C? In questo modo sono gli altri a decidere dove posso o non posso andare», osserva l’attivista, voce delle persone con disabilità.
L’attivista sfida qualunque «municipale a vivere la società in toto, in sedia rotelle e accontentarsi di 32 fermate senza frustrazione». Ad ogni modo, precisa, «è una buona cosa che se ne sia parlato, vuol dire che c’è stata cassa di risonanza». Inoltre, afferma Carniel, «capisco che l’economia è in un periodo difficile, capiamo la congiuntura e che le priorità sono numerose, ma non siamo l’ultima voce sulla lista, e se lo siamo vogliamo scalare la classifica». «Come tutti, voglio anche io avere la facoltà di decidere che le mie barriere siano un cancello e non una prigione». Per comprendere più a fondo le problematiche che Carniel, come tanti altri, affrontano quotidianamente all’interno della società, sentendosi talvolta prigionieri delle decisioni altrui, occorre soffermarsi sulla definizione di abilismo.
«L’abilismo è graficamente rappresentato come una piramide ed è il pregiudizio e la discriminazione a cui sono sottoposte le persone con disabilità». Si tratta di un termine «cappello attraverso il quale vengono esplicitate le varie forme di preconcetti e sottostima, partendo dalle più gravi – come ad esempio l’eugenetica nazista – per arrivare all’abilismo interiorizzato ovvero le varie forme di discriminazione invisibili che la società si porta dietro come retaggio di comportamenti sbagliati e che sarebbe buona cosa venissero ora decostruiti». Una volta «c’era l’idea della malattia come uno stigma, come qualcuno di non valido, invalido. Anche l’espressione ‘persona diversamente abile’ è negativa, perché la mia persona deve arrivare prima della mia diagnosi. La persona prima, il problema dopo». Per questo, spiega Carniel, «è meglio dire ‘persona con disabilità’, anche se non è questa diagnosi a definirmi. Il dolore è immeritato, ma non è quello che ci connota».
Nota che c’è stata un’evoluzione nell’approccio alla tematica della disabilità?
Sì, pian piano le nuove generazioni, studi di genere e attivisti stanno facendo in modo che la tematica diventi di dominio pubblico e c’è una grande catena di persone che si stanno coalizzando. Le varie minoranze (come i gruppi femministi, le persone con disabilità, la comunità Lgbt) si stanno unendo e facendo rete insieme perché si è capito che determinate battaglie sono simili. Quindi si sta cercando di evadere dalle etichette e lottare per un fine comune, ovvero quello di dare voce a chi non ne ha mai avuta. Siamo veramente tutti degli esseri a sé stanti, e se passasse il messaggio che siamo veramente unici e degni di essere conosciuti e soprattutto riconosciuti sarebbe un grande traguardo.
La questione è che io non voglio che la società mi includa, perché l’inclusione intesa come semplice presa in carico senza realmente capire i bisogni è ingiusta. È come se un gruppo uno, di potere, mi fa il piacere di includermi. Io voglio che la società si renda conto che io ho bisogno di occasioni, di opportunità. Poi sta a me saper gestire queste opportunità e, se sono brava, con merito, facendo il mio massimo possibile, trasformarle nel mio modo di essere efficiente ed efficace che spesso non significa essere produttiva ma semplicemente essere una brava persona. Questa è una società della performance, in cui vai bene solo se hai un certo tipo di capacità. E questo nessuno lo dice perché è politicamente scorretto dirlo.
Quindi l’atteggiamento dell’inclusione è in realtà una forma stessa di discriminazione?
Bisognerebbe capire che la società è composta da ciascuno di noi, e ognuno di noi ha un ruolo e una responsabilità. Se ognuno facesse il proprio ma sempre guardando anche all’interesse dell’altro staremmo tutti meglio. La collettività dovrebbe capire che non ci servono pietà e azioni eclatanti per essere aiutati, basta comprendere la differenza tra curare e prendersi cura. Curare implica che c’è un problema da guarire, ed è così che tendenzialmente agisce la società con l’atteggiamento dell’inclusività. Mentre bisognerebbe concentrarsi su terreni inesplorati. Prendendo a cuore una persona riusciamo a vederla nella sua totalità, iniziamo a osservarla e non più a vederla come un fenomeno da baraccone da guardare in maniera morbosa. Così facendo si possono scoprire similitudini inaspettate. Anche perché siamo tutti uguali, siamo persone.
Gli animali e la natura ci danno tanti esempi di società virtuose. Non è che se non sei direttamente coinvolto devi ignorare, perché la società è fatta da tutti noi, siamo tutti coinvolti nel processo evolutivo. E per essere una collettività virtuosa bisogna informarsi e informare. Più uno si informa, più diventa tollerante e ingloba le battaglie altrui. Non si può più guardare dall’altra parte: non andava bene prima e non va bene neanche adesso, nel 21esimo secolo. Non si ha più la scusa che non si sa dove trovare le informazioni. Se non ti informi è perché non vuoi, e se non vuoi c’è un problema.
A volte le persone hanno paura di avvicinarsi e approcciarsi a me, a noi persone con disabilità, perché non sanno bene cosa dire o cosa fare. Quello che ripeto sempre è che spesso non conosciamo le battaglie altrui, ma non c’è bisogno di capire o immaginare quelle battaglie per empatizzare, bisognerebbe semplicemente avere quella curiosità per impegnarsi a conoscere e a stare vicino nel modo più autentico possibile, come si farebbe con chiunque altro. Non voglio che una persona diventi la mia badante, ma che diventi mia amica, e questo fa in modo che la relazione sia paritaria. Altre volte la gente si chiede la mia diagnosi e io non ho problemi a rispondere, ma se questa persona non mi conosce, della mia risposta non se ne fa nulla. La curiosità va bene, ma se è morbosa vai su Google.
Dunque cosa potrebbe fare in più la società?
Il privato, il singolo, può iniziare ad aprirsi e conoscere i punti di contatto, a partire dal creare corsi di formazione a ogni livello, avere accesso a informazioni in lingua italiana per tutti, creare eventi. Occorre creare movimento: avvicinandosi a ciò che si conosce con rispetto, e gentilezza. Senza vittimismo o eroismo, ma soprattutto senza timore, bisognerebbe essere parte di un diritto che non ci concerne in prima persona, ma che sappiamo giusto. Diventiamo alleati.
Così come, il gruppo può cominciare dallo smettere di bullizzare, emarginare, di stare tranquillo nel suo privilegio. L’ente pubblico può e dovrebbe fare in modo che anche chi ha un determinato problema venga ammesso alle tavole del potere. Per esempio, quando un team di architetti progetta una costruzione, dovrebbe contattare almeno una persona con disabilità, anche se l’ideale sarebbe che venissero ascoltate più voci dal momento in cui siamo tanti portavoce con tante storie e background diversi. Farlo dopo che un lavoro è stato terminato è come voler cercare di rimediare a un problema. Le persone con disabilità sono una comunità nella comunità, siamo tantissimi e ciascuno ha bisogni diversi. Non dovrebbe esserci una divisione quando si parla di migliorie da fare. Anche noi vogliamo avere una vita piena, poter essere indipendenti, autodeterminati e non solo sopravvivere. E spesso dobbiamo fare doppia fatica rispetto a un’altra persona perché questa è una società che spesso non è pronta e in grado di pensare per tutti. Non solo per i disabili, ma anche per gli anziani o per le donne incinte. Per coloro che sono ritenuti marginalizzati.
La cultura, per esempio, è ancora molto spesso inaccessibile. Musei, parchi, luoghi storici, sono spesso difficili da visitare per le persone con disabilità. C’è ancora tanto da fare in questo senso ma basterebbe poco per far si che anche i disabili possano godere delle cose belle delle città. Il Lac è un caso virtuoso perché è stato fatto per essere davvero fruibile a un vasto pubblico. Sarebbe bello se fosse sempre così: che le persone si chiedano come fare meglio. Anche perché siamo stanchi di bei discorsi che vengono fatti a suon di forse, ‘magari’ e alla fine fanno rima con ‘mai’.
Carniel, oltre che presidente dell’associazione All4All Ticino, è collaboratrice di ProInfirmis, membro del ‘Team Ticino Accessibile’ (un gruppo di donne ticinesi, motivate ad andare oltre ogni barriera architettonica) e giornalista. E in futuro potrebbe diventare la portavoce di ProInfirmis Ticino nella prima sessione, convocata dal presidente del Consiglio nazionale Martin Candinas, delle persone con disabilità, che si terrà il 24 marzo nella Camera bassa. «Per me è un’occasione interessantissima – a cui partecipo anche grazie a ‘Tantkfranft’, associazione con cui collaboro in Svizzera tedesca – per portare un messaggio di partecipazione attiva, per l’avvento di una società in cui la libertà passi dal confronto e dalla bellezza dell’altro». Ma oltre a questo, Carniel sogna di «essere protagonista di nuove sfide, essere sempre più autorevole e ascoltata, poter dare il mio contributo. E spero di poterlo fare nel settore dell’insegnamento, dei media e della comunicazione». Infine, conclude, «Non vedo l’ora di frequentare il mio futuro. Ho una passione per la felicità che me per me è rappresentata dalle persone».