È iniziata alle 16 per finire verso le 18 la Messa di saluto e ringraziamento per il Ministero episcopale di monsignor Valerio Lazzeri
È iniziata con il brano del Buon Pastore l’ultima Messa da vescovo di Lugano di monsignor Valerio Lazzeri. Vescovo emerito che ha evocato la pace dei cuori nel suo saluto iniziale.
Nella Cattedrale di San Lorenzo di Lugano fedeli e religiosi hanno preso posto fra i banchi già una mezz’oretta prima, riempiendoli tutti. A rendergli omaggio per il Ministero episcopale svolto in questi nove anni, diversi esponenti del mondo clericale, oltre un centinaio i sacerdoti e parroci presenti. Otto in tutto i vescovi che lo hanno accompagnato all’altare. Fra loro anche monsignor Erminio De Scalzi, vescovo ausiliare della Diocesi di Milano. Nella Cattedrale, alla destra di Lazzeri, il vescovo Alain De Raemy, designato da papa Francesco quale amministratore apostolico.
Carissimi amici, Carissime amiche,
non è forse privo di significato che, al termine del mio servizio come Vescovo di Lugano, Gesù ci parli nel vangelo di una circostanza che si verifica nel tempio. Proprio qui, infatti, nello spazio pubblico della celebrazione dell’alleanza, appare in maniera visibile la comunione che raccoglie i figli di Dio dispersi. È nell’edificio dedicato alla preghiera, all’incontro tra il Dio vivente e il suo popolo, che, attorno al Vescovo, la Chiesa si rivela nel tempo come organismo ordinato, articolato in vari ministeri, vocazioni e carismi. In particolare, per quel che mi riguarda, è soprattutto in questa Cattedrale di San Lorenzo che mi è stato dato per nove anni di esercitare il servizio episcopale. Mi sono impegnato a compierlo ogni giorno senza spadroneggiare su di voi.
Ho sempre coltivato il proposito di operare da fratello, a cui è stato chiesto, per ragioni note fino in fondo solo a Dio, di farvi da pastore e padre. Penso con riconoscenza e commozione alle celebrazioni solenni della Messa Crismale, del Triduo Pasquale, delle grandi feste dell’anno liturgico, delle Ordinazioni presbiterali e diaconali e di tante altre occasioni, in cui ci siamo radunati in questo luogo, ricco di memorie e impregnato di storia; una storia che continua e non si interrompe con l’avvicendarsi dei volti e dei nomi.
Oggi, però, ci viene pure ricordato dal Signore che al tempio, anche quando ci si reca per prendere parte a un’azione liturgica collettiva, si va con la propria singolare umanità, con la propria vita personale, con l’atteggiamento esistenziale di fondo che, di volta in volta, la caratterizza. Dio, infatti, non si accontenta mai di aggregare dall’esterno un corpo sociale fra gli altri. Non raccoglie un’associazione che milita per una causa mondana. Attira silenziosamente da dentro, a una a una, le sue creature e cerca di persuaderle a partire dal loro intimo. Non seduce in blocco come chi vuole manipolare, ma affascina il cuore umile, che si lascia disarmare. Il Signore fa vivere e gustare la sostanza dell’unità ecclesiale solo a chi rinuncia a puntellare la propria fragilità con la lista delle proprie riuscite. Nutre nel segreto chi non ha bisogno di farsi forte, convincendosi di essere migliore degli altri. Per questo esiste la Chiesa! Non per promuovere individui, impegnati a costruirsi una buona coscienza a scapito degli altri, ma per favorire in ciascuno la libertà interiore, l’esperienza rigenerante della misericordia, la vita nuova nello Spirito, la capacità di amare.
Dice il fariseo: «Non sono come gli altri uomini». Vi confesso che per me queste parole costituiscono l’espressione più terribile che possa scaturire da un cuore umano. Non riconoscersi nell’umanità altrui; rifiutarsi di vedere sé come un altro; non entrare in relazione da pari a pari con chi condivide la nostra stessa condizione umana. Ecco l’affronto più grande che possiamo fare al Creatore, il gesto con cui maggiormente ci opponiamo allo Spirito di Cristo. Separandoci dagli altri, ci rendiamo sordi alla sua voce, che continuamente attesta in noi il nostro essere figli e quindi fratelli gli uni degli altri. Quando perdiamo la capacità di onorare la nostra stessa umanità in quella dell’altro che ci sta davanti, nessuna pratica di pietà, nessuna osservanza, nessun attivismo missionario o pastorale potranno mai compensare lo sfregio che viene così operato alla Verità e all’Amore. È la scoperta che il fariseo Paolo ha fatto sulla sua pelle, diventando apostolo e testimone privilegiato della possibilità di guarire in noi questa profonda ferita.
Lo abbiamo sentito nella seconda lettura. Le sue parole esprimono la consapevolezza a cui ciascuno di noi dovrebbe arrivare al termine della sua vita: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). Non è stata tutta rose e fiori la sua esistenza: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito». Addirittura, arriva a dire: «Tutti mi hanno abbandonato». Il suo cuore però è sereno. Non c’è spazio, infatti, in lui per il lamento o per il risentimento: «Nei loro confronti, non se ne tenga conto» (2Tm 4,16).
Carissimi, è proprio questa la musica, a cui fa riferimento il motto da me scelto, quando sono diventato vostro Vescovo. Non mi sono mai illuso che tutto potesse sempre svolgersi tra noi in maniera idilliaca. Non ho mai ingenuamente pensato che bastasse lasciare suonare ciascuno a modo suo, perché ci fosse unità e condivisione perfetta d’intenti. Ho solo osato credere, e non cesserò mai di farlo, all’unica vera autorità, all’unica exousia, che Cristo ha affidato agli apostoli e, attraverso di loro, alla Chiesa intera: l’inesauribile forza di persuasione dello Spirito Santo, effuso nei nostri cuori, l’efficace tenerezza di Cristo, a noi accessibile nei suoi sacramenti, il desiderio ostinato del Padre di guarirci nel Figlio, di sottrarci a tutto ciò che ci separa da una vita liberata per sempre dalla morte. Che bisogno abbiamo, allora, di fare ancora strepito con noi stessi per darci la convinzione di esistere, di essere migliori degli altri? Che necessità possiamo ancora coltivare di fare l’elenco delle cose che siamo riusciti a fare, mascherando le nostre debolezze, di ostentare i nostri successi, occultando i nostri errori?
Possiamo lasciarci raggiungere, anche fermandoci a distanza e senza osare alzare i nostri occhi, dall’infinita benevolenza del Signore, di Colui che, nella sua perfetta innocenza, ha voluto assumere la nostra condizione di peccatori.
Permettetemi di andare un po’ oltre. Quale radice ultima possono mai avere i cosiddetti problemi della nostra Diocesi, le difficoltà della Chiesa o della società complessa in cui viviamo, se non il rumore del nostro ego, il frastuono interiore che ci distoglie dall’ascolto dell’essenziale? Apriamo perciò gli occhi! Apriamo il cuore!
Non ci manca nulla per far salire all’Altissimo, qui e ora, la preghiera del povero, la preghiera unanime ed efficace, la preghiera capace di attraversare le nubi e sciogliere le montagne artificiali, con cui, a nostro stesso danno, ci teniamo separati gli uni dagli altri! È con questa convinzione, fratelli e sorelle carissimi, che desidero salutarvi.
Voglio dirvi ancora una volta tutto il mio affetto, tutta la mia riconoscenza al Signore, per il tratto di cammino che ci ha concesso di percorrere insieme, con i Vescovi emeriti Ernesto e Pier Giacomo, con i Presbiteri, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate, tutte e tutti voi fedeli di questa Diocesi, autorità, uomini e donne che, anche solo per un momento, ho avuto l’occasione di salutare, di conoscere e di apprezzare. In ciascuno, posso dire, ho sentito l’eco della musica silenziosa che guarisce e «giustifica», ossia, rende giusto il cuore, chiamandolo alla vita piena, oltre ogni chiusura su di sé e ogni meschinità.
Grazie, dal profondo, per la vostra preghiera e per la vostra fraternità, per la vostra pazienza verso i miei molti limiti e le mancanze che non ho saputo evitare. Grazie per la vostra compagnia, espressa in molti modi anche in questi giorni non facili, sia per me che per voi! Non pretendo, certo, che tutti capiscano la mia scelta. Comprendo senza difficoltà chi trova da ridire sulle decisioni che, come Vescovo, in scienza e coscienza, sono stato di volta in volta chiamato a prendere in questi anni, segnati per tutti da grande travaglio. So semplicemente che a rendere sicuro il mio e il vostro cuore davanti al Signore non sarà mai una lista di prestazioni riuscite e di risultati raggiunti. Dio non pretende da noi successi da esibire come trofei. Aspetta con fiducia, incrollabile e disarmante, che le nostre vite siano versate in offerta, liberate dalla tristezza, raggiunte nel loro bisogno ultimo di amare e di essere amate. Ci doni il Signore di stare sempre e solo a questo. Non agitiamoci inutilmente per farci sentire e riconoscere più bravi degli altri. Attendiamo «con amore la sua manifestazione».
Lasciamo da parte ogni «intima presunzione di essere giusti». Gareggiamo per portarci insieme, gli uni con gli altri, davanti al «Giudice giusto», sempre pronto a perdonare. S’incida in noi, nel profondo, la speranza di ricevere unicamente da lui quella «corona di giustizia», che qui sulla terra è vano tentare di mettere sulla propria testa. L’umiltà di Maria Santissima, che in questa Cattedrale veneriamo come Vergine delle grazie, la carità pastorale di San Carlo, di Sant’Ambrogio e di Sant’Abbondio, la forza invitta di San Lorenzo, di tutti i martiri e di tutti i santi, continuino a essere i punti di riferimento essenziali della Chiesa che è a Lugano.
Siatene certi: non s’interrompe il mio desiderio di servirla né di volere bene a ciascuno di voi. Continuiamo a pregare insieme il Signore per arrivare in ogni momento a discernere con lucidità il nostro cammino, nella libertà e per amore. «A Lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (2Tm 4,18).