Inaugurata oggi la mostra che affianca i ritratti d’epoca di Remo Canonica con quelli contemporanei di Giuseppe Pennisi. Esperimento davvero riuscito
"Sta’ ferma un po’, che ci fa la foto"! Ci si immagina un monito del genere, un secondo prima dello scatto, dalle labbra di una delle ragazze immortalate ‘a monte’ da Remo Canonica. Sarà stato il ’35 o giù di lì, e quel bianco e nero di gruppo è tra le prime immagini in cui ci si imbatte salendo al nucleo di Roveredo, in alta Capriasca. L’idea è doppiamente brillante: mettere in dialogo l’Archivio audiovisivo di Capriasca e Val Colla coi viottoli di Roveredo e Treggia, tanto per cominciare, e poi affiancare alle immagini del passato quelle del presente, altri ritratti ‘In posa’ – questo il titolo dell’esposizione inaugurata oggi e visibile fino al 18 settembre – scattati da Giuseppe Pennisi, il quale spiega di aver voluto «ricostruire una sorta di campione rappresentativo della gente di questa valle: l’artista, il religioso, la massaia, ‘ul matt’…».
Ecco allora che tra gigantografie e cartelloni – tra le pietre e i colori pastello delle case, che la luce di maggio fa virare un po’ al Mediterraneo – il passato si sovrappone al presente. La prima impressione è che tutto sommato non ci sia una gran differenza: i monti son quelli, il lago anche. È cambiato qualche scarpone, d’accordo, e il pingue capo di famiglia che festeggia compiaciuto un Capodanno post-Belle Époque, coi suoi mustacchi arricciati e imbrillantinati, ormai lo ritroviamo solo nei film di Wes Anderson. Ma faccioni tra il brusco e il bonario, come il Lele del Pub Alpino, li vedresti bene anche un secolo fa: a cambiare saranno stati al massimo i nomi delle birre, mentre il suo carlino fa da controcanto ideale ai gatti che lo stesso Canonica, sempre negli anni Trenta, portava sulle spalle quando si faceva quelli che ora chiameremmo ‘selfie’.
Negli scatti del vecchio maestro di scuola nato a Treggia s’indovina, oltre alla volontà di accontentare chi intendeva crearsi qualche spartano ricordo, un’ironia sempre complice, mai feroce. «Mio padre non era autoritario neppure a scuola, anche se il suo aspetto più giocoso e bohémien emergeva piuttosto fuori casa, con noi era più severo…», ricorda il figlio Michele rivelandone anche il talento poliedrico, che «spaziava dalla fotografia all’artigianato in legno».
Incuriosisce vedere come Pennisi – siciliano da Bronte ‘quella dei pistacchi’, capriaschese da una vita – riesca a ripartire proprio da Canonica, creando la suggestione di un tempo circolare, aggiungendo però qualcosa che è tutto suo: la capacità di indovinare in ogni volto i segni, le rughe, il ruminìo d’una vita non sempre clemente. «Ognuno ha dentro di sé un mondo che io poi mi sforzo di interpretare», ci confida mettendo alla prova la sua gentile timidezza.
L’allestimento ingegnoso riservato a questi due «depositari di una tradizione, il cui lavoro ci aiuta a risciacquare la vista» – parole del critico d’arte Giulio Foletti – contribuisce a vivacizzare il dialogo tra volti, spesso aggiungendo grazie agli accostamenti un ulteriore elemento ludico. Così il Bicio, valente e rubizzo macellaio di valle, sorridente con un’oca spennata in mano e un grembialone rosso a fargli da paramento cardinalizio, si trova accanto a un’antica Suor Maria Pellegrina, coriacea orsolina in bianco e nero le cui mascelle promettono di difendersi bene in caso di costinata. Di fronte due ragazze dell’epoca paiono guardare divertite, sigaretta in bocca per far le Greta Garbo, ai piedi scarponi e calze di lana che tradiscono origini assai meno hollywoodiane. Un vagabondo che pare un Chaplin di montagna passa di là pure lui, mentre i volti di bimbi ed ex bimbi si rincorrono per le salite del borgo.
Oppure saltano con noi a Treggia, dove i sei fratelli Stampanoni sono stati messi in ordine di altezza e in divisa prima di partire militari. Erano gli anni dell’infido baffetto crucco, e lo sguardo dei baldi giovinotti pare tradire qualche perplessità circa il senso di tutta quella parata. A intonare il ‘rompete le righe’ spunta fuori lo sguardo dispettoso d’un bambino dell’asilo, che dall’angolo di un’antica foto di classe pare già occhieggiare la bellissima maestra, sguardo corvino sotto sopracciglia che ignorano le lusinghe degli estetisti. Accanto, affrescato sopra alla fontana della piazza, c’è il vecchio monito: "Vietato lordare. Multa franchi…". L’ammontare è illeggibile, perché da un secolo generazioni di monelli vi incidono sopra la loro firma. L’ultimo scarabocchio che troviamo è del 2018, uno dei primi del ’31: un certo Barnaba. Che sia lo stesso bambino della foto è improbabile. Ma è bello crederci.