Lorenzo Cairoli: ‘S‘insegna senza Pc, solo fogli, ma c’è tanta socialità’. La direttrice, Cecilia Beti: ‘Miriade di corsi e 4 apprendisti’
Gli esami non finiscono mai. Nemmeno dietro le sbarre. La formazione non conosce limiti e, nell’interminabile scorrere del tempo, rappresenta un’opportunità per le persone in detenzione: imparare l’italiano, apprendere le basi fondamentali per un mestiere. C’è anche chi insegue mete grandiose: è il caso di quattro detenuti che frequentano un vero e proprio apprendistato – la struttura carceraria come datore di lavoro – e ambiscono a conseguire l’agognato attestato federale di capacità. Benvenuti alla scuola InOltre. Fondata da Mauro Broggini, ideatore della formazione in penitenziario, da tre anni è guidata da Cecilia Beti, direttrice del Centro professionale tecnico di Lugano-Trevano, scuola post-obbligatoria professionale del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport. La scuola InOltre è coordinata da Lorenzo Cairoli, il quale possiede una duplice esperienza di docente di cultura generale, nelle sedi cosiddette normali, e che per due anni ha insegnato in carcere, perlopiù a donne e minorenni che si portano addosso esperienze fuorilegge e si trovano a espiare condanne, confrontati alla prigionia e alla sofferenza. Quali sono le differenze tra questi due universi?
«Le differenze sono tante», assicura Lorenzo Cairoli. «Non risiedono nella materia insegnata, ma nel luogo di lavoro: se nella scuola cosiddetta normale sono abituato a fare un miliardo di cose e in totale libertà, in un carcere invece gli spostamenti sono limitati, regolamentati. Già le procedure d’ingresso sono diverse. Entrando in carcere, c’è il metal detector: devo lasciare tutto quanto non è strettamente indispensabile all’insegnamento, sostanzialmente posso portare solo i documenti cartacei, previo controllo da parte del personale. Telefonino cellulare, chiavetta usb e tutto quanto di elettronico non possono entrare nella struttura per ovvi motivi. L’ingresso sul posto di lavoro è diverso anche dal profilo delle sensazioni. E anche gli spostamenti all’interno sono differenti. Le porte non posso aprirle io. All’ingresso mi viene consegnata una tessera magnetica che dà accesso ad alcune porte. Poi ce ne sono altre che devono essere sbloccate dalla centrale operativa. C’è una sorta di citofono da suonare, una telecamera che sorveglia l’ingresso e, una volta date le informazioni richieste, la porta si apre. Quindi si passa alla stanza successiva, quasi alla stregua di un videogioco».
Le lezioni in carcere devono dunque essere forzatamente frontali? «Non necessariamente. Nelle mie lezioni ho spesso favorito le discussioni e le argomentazioni, dopo una breve esposizione di un tema. Discussioni che hanno sempre assunto una portata ampia. Facile immaginarne i motivi: in carcere ci sono persone con storie, ritmi, età diverse. E quindi la discussione si arricchisce dell’esperienza di tutti e si riescono ad affrontare argomenti davvero importanti». Un tratto peculiare che non si riscontra altrimenti all’interno delle scuole professionali? «Come in tutte gli ordini scolastici, il punto è che c’è un programma da portare a termine. Anche in carcere ci sono i percorsi di apprendistato, alla Stampa e il programma è identico, esami inclusi. Nella mia esperienza d’insegnamento ho lavorato alla Farera con le donne e i minorenni e nella mia lezione di Cultura generale, materia del programma scolastico, ho avuto più libertà. Spesso gli spunti sono venuti persino dalle corsiste. Si è spaziato dalla politica, alla civica. Mi è capitato di dedicare pomeriggi interi ai ricordi d’infanzia. Nell’insegnamento in carcere si cerca di favorire lo spazio per momenti personali. Scritto e parlato rimangono le due principali attività».
«La differenza tra il carcere penale e giudiziario? La Farera è un carcere giudiziario, quindi ci sono detenuti in attesa di giudizio, in detenzione preventiva. Sono coinvolti in un’inchiesta che non è ancora terminata, e per evitare pericoli di recidiva e collusione devono stare in carcere. Alle donne e ai minorenni che sono in regime ordinario, vale a dire che stanno scontando la loro pena, è dato prioritariamente il diritto alla formazione». A livello di sensazione, all’interno del carcere, quali sono i sentimenti che passano nelle ore d’insegnamento? Non ha mai avvertito paura? «All’inizio, prima di iniziare, la paura c’è stata, ma era dovuta alla non conoscenza del luogo in cui mi apprestavo a lavorare. Associ il carcere a tutti i pericoli di cui si sente parlare. Poi, una volta dentro, sin dalla prima lezione nel penitenziario mi sono sentito subito a mio agio, sono stato accolto benissimo. C’è un ambiente di condivisione di esperienze, di interesse da parte dei corsisti. L’idea negativa del carcere sparisce in breve tempo». Prosegue Lorenzo Cairoli: «In un carcere giudiziario le condizioni di detenzione sono particolarmente rigide, hanno solo un’ora d’aria. E chiaramente la scuola rappresenta un’opportunità di incontro anche fra gli stessi partecipanti, per una intera giornata si confrontano, parlano, discutono. La scuola diventa momento di socialità e accoglienza, ti ricevono con un tè e i biscotti preparati da loro durante la lezione di cucina, in un clima di spontaneità».
In carcere il ruolo del docente si avvicina dunque più a quello del mediatore? «Assolutamente sì. Si diventa anche confessori. Molto spesso mi confidano le loro preoccupazioni, legate in particolare a questioni giuridiche». E i temi culturali riescono ad attecchire e suscitare interesse fra i detenuti? «Eccome. Mi sono laureato in letteratura e, anche per interesse personale, propongo spesso testi letterari, poesie, racconti. Che hanno costituito spesso il punto di partenza della lezione. Abbiamo letto assieme romanzi brevi, come Novecento di Baricco. Abbiamo visto anche la sua trasposizione cinematografica di Tornatore. Chiaro che in carcere si è chiamati ad affrontare problematiche a livello linguistico, dal momento che molti dei corsisti sono stranieri. Mi è capitato anche di compiere un insegnamento bilingue. Ricordo una corsista di origini turche che viveva nella Svizzera interna che parlava turco e un po’ di tedesco. Con l’aiuto della classe alla traduzione c’era un coinvolgimento totale. In una lezione di un’ora e tre quarti c’è uno scambio davvero ricco: dal plurilinguismo, alla multiculturalità».
Detenuti e detenute, d’altro canto, hanno loro malgrado più tempo teoricamente per studiare. Questo li favorisce nell’apprendimento? «Chi vuole ha il tempo di riflettere e di leggere. Hanno accesso alla biblioteca. Molto spesso le loro letture in cella sono diventate motivo di approfondimento in aula». Sono sorvegliate le lezioni? «No. Abbiamo tuttavia degli strumenti che consentono un rapido intervento da parte del personale in caso di bisogno. Succede molto raramente. In un caso, in modo preventivo, quando il tono delle discussioni si è fatto eccessivamente acceso, ho richiesto l’intervento degli agenti di custodia. Sotto il tavolo c’è un pulsante da premere, che tuttavia io non ho mai utilizzato. Quella volta sono uscito dall’aula e tramite i citofoni ho richiesto l’intervento delle guardie carcerarie che hanno ripristinato l’ordine».
Ha un aneddoto relativo all’esperienza d’insegnamento in carcere? «Mi è capitato di avere a lezione due minorenni, uno tunisino e l’altro algerino, che chiaramente non parlavano italiano, ostentavano solo un po’ di francese. Soggiornavano al Centro richiedenti l’asilo di Balerna. La comunicazione con loro era molto difficile e ho chiesto se volessero imparare qualche parola di italiano, dal momento che poteva essere utile per loro. Li avevo a lezione separatamente, dal momento che erano coinvolti nella stessa inchiesta penale e non potevano incontrarsi. Il più timido dei due sapeva solo due parole d’italiano: “avvocato” e “mamma”, perché voleva sempre tornare a casa. Un pomeriggio, in un momento di abbattimento, si è messo a piangere. Ho cercato di confortarlo. E mi sembra mi abbia detto qualcosa del tipo, “sei bravo, grazie”. È una cosa che mi ha fatto estremamente piacere, soprattutto che me lo abbia detto in italiano. Perché significa che di quel poco che abbiamo svolto insieme, qualcosa è rimasto. Mi ha restituito il senso del lavoro che abbiamo compiuto insieme».
Cecilia Beti ha appena inaugurato, a settembre, il suo terzo anno quale direttrice della scuola InOltre nelle strutture carcerarie. «La scuola InOltre – spiega – si occupa della formazione sia all’interno del penitenziario per la detenzione preventiva Farera, rivolta a minori e alle donne, sia alla Stampa per gli uomini che non si trovano più in detenzione preventiva e che sono già stati processati e che quindi acquisiscono il diritto all’iscrizione alla scuola. Abbiamo attualmente anche quattro detenuti – si tratta di giovani adulti, tra cui un quarantenne – iscritti all’apprendistato per il conseguimento dell’Attestato di capacità federale (Afc) o del Certificato federale di formazione pratica (Cfp). Seguono la normale griglia oraria – un giorno di scuola alla settimana – e le identiche materie, alla stessa stregua dei loro compagni iscritti nei Centri tecnici professionali del Cantone. Solitamente i candidati sono persone che devono espiare una pena lunga almeno quanto la durata della formazione. È successo tuttavia che persone in semilibertà fossero integrate nei Centri professionali tenici. L’ostacolo, per chi lascia il penitenziario, è che deve trovare un apprendistato. Altrimenti il datore di lavoro è il penitenziario, dove ad oggi le professioni possibili sono tre e s’inseriscono all’interno dei laboratori già previsti obbligatoriamente per tutti i detenuti: falegnameria, legatoria-postpress e cucina». Quali sono invece le opportunità di formazione per gli altri detenuti? «Un ventaglio ampio viene offerto alle donne per l’ottenimento di certificati di frequenza. Per le donne, le materie spaziano, dalla cultura generale all’informatica, all’educazione fisica, educazione visiva, un laboratorio di cucito. Due o tre volte la settimana, il mattino, si trovano inoltre con una docente per imparare l’ambito domestico e la preparazione del pranzo». Prosegue Cecilia Beti: «Per i minori, la cui detenzione è di breve durata, la formazione è di grande importanza: hanno la possibilità di seguire lezioni di educazione fisica, cultura generale e un laboratorio di cura della casa e cucina. Sia per i minori sia per le donne è data la facoltà di conseguire “crediti Ecdl” legati a programmi informatici. L’iscrizione agli esami è a loro carico, perché è importante che i partecipanti siano interessati e motivati». Veniamo alla possibilità formative per gli uomini. «Per gli uomini vi sono pure corsi d’informatica, di base e approfondita, di educazione fisica e visiva. Vi sono inoltre corsi di lingua – inglese, tedesco, francese e italiano – sia di base sia improntati alla cultura per chi intende approfondire». «Per tutti – minori, donne e uomini – esistono pure moduli di 40 ore legati alla contabilità e all’imprenditorialità (business plan); un modulo di pasticceria, uno di cucina, uno di taglio dei capelli. Va inoltre detto che per le donne e i minori, i corsi di formazione si svolgono anche durante l’estate, grazie alla disponibilità dei docenti. I docenti sono quelli delle diverse sedi dei nostri Centri professionali tecnici, complessivamente una ventina che insegnano nelle strutture carcerarie». Come fate a ottenere la loro disponibilità a insegnare in carcere? «Intercettiamo quelli che ci potrebbero sembrare interessati. Svolgiamo un colloquio con loro e poi si decide, non è un obbligo». Qual è il bilancio, anche in termini umani, della sua direzione della scuola InOltre? «È un’esperienza decisamente arricchente. E dal profilo organizzativo abbiamo la possibilità di collaborare in modo molto costruttivo con le strutture carcerarie e con il direttore, Stefano Laffranchini».