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Lacrime e sorrisi. La vita con (e senza) Satayesh la verzaschese

Incontro con i compagni di classe della bimba afghana rimbalzata, con la mamma, fra le maglie della burocrazia. In cerca, solo, di un po’ di normalità

Assieme si può
12 gennaio 2023
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«Ah già, era quella volta che tu avevi pianto…». Ci sono momenti in cui il tempo è sospeso. Parlano i silenzi, gli sguardi, parla la violenza con cui la realtà improvvisamente torna a bussare. "Quella volta", evocata dalla piccola Chiara, è quel lontano giovedì mattina di metà maggio in cui la classe di Satayesh si era ritrovata in aula senza la bimba afghana, prelevata dalla polizia, unitamente alla mamma, durante la notte. Erano arrivati in quattro. Le avevano fatte vestire e sloggiare. Non c’era bisogno di ripetere che la Svizzera non le voleva. Era bastata la perentorietà dell’azione, condotta in sprezzo del più basilare diritto all’accoglienza, della proporzionalità rispetto alla fragilità di due donne, una già adulta, l’altra ancora bambina, costantemente indecise se avere anche una speranza o essere soltanto spaventate. Due dei quattro poliziotti si erano imbarcati con loro, "scortandole" fino a Lubiana, in Slovenia, il Paese che secondo il Regolamento di Dublino avrebbe dovuto registrarle, accoglierle e farle sentire a casa. Retorica. Perché più casa della Valle Verzasca, per la ragazzina di 8 anni e per sua mamma, oggi come allora davvero non può esserci.

Le lacrime, quel giorno di maggio, erano di Bianca Soldati, la maestra della biclasse di prima e seconda elementare a Brione. Chiara, amica del cuore di Satayesh, non le potrà mai dimenticare. Lo si capisce dallo sguardo tremendamente serio, con gli occhi che guizzano alla ricerca di conferme, e forse anche di qualche risposta alle troppe domande che da mesi si affastellano una sull’altra come un brutto Shangai. «Sì – dice la maestra –, ero veramente arrabbiatissima». Ma non era solo rabbia. Prima c’erano l’incredulità, l’indignazione, una tristezza tanto profonda e pervasiva da toglierti il fiato. Perché dover spiegare a dei bambini che la loro compagna è stata portata via, d’improvviso, durante la notte, è una di quelle cose che, semplicemente, non sai fare. Puoi solo piangere.

Poi però si torna a sorridere. Satayesh, grazie a tante mani tese, ha ritrovato i compagni e il suo mondo ha ricominciato a girare assieme al loro. Rieccoli, gli amici, che nel frattempo si sono fatti comunità, collaborando, proprio nel giorno del presepe vivente, alla raccolta di firme lanciata per dire alla Svizzera una cosa semplice: un’amica così deve poter rimanere. «Tanto più – dice un compagno – che quando l’hanno portata via non ci hanno nemmeno chiesto il permesso». «È stato bruttissimo», rompe gli indugi Sara, in ultima fila, una maglietta rosa con su un grande cuore multicolore. «E poi non penso che lei era così d’accordo». Fabrizio, tifosissimo dell’Ambrì, sbaglierà anche qualche congiuntivo, ma dimostra di saper distinguere e lo fa anche a nome della compagna afghana: «Qui può fare molte più cose: se va in giù è tutta città, e trova solo cemento».

In fondo, è solo di questa ingenuità che ha bisogno Satayesh. Ha 8 anni, ha già visto il buio dell’anima e oggi chiede soltanto la normalità che le può dare l’unica vita possibile per lei: una scuola, la sua maestra, dei compagni e un quaderno. Come dice Bianca sorridendo, orgogliosa, «lei poi ci mette del suo: è sveglia e particolarmente brillante». Non ci sono dubbi, «è brava in tutto. In matematica lo è sempre stata e ha fatto enormi progressi anche in italiano. Comincia a leggere molto bene».

È speciale, Satayesh: intelligente, ricettiva, ha carattere e qualche volta deve prendere i compagni per mano e condurli a capo di un calcolo che lei ha risolto immediatamente dopo averlo visto. «Per noi – ricorda Enrico – ha fatto anche la maestra!». La materia: il Farsi. Ora i compagni sanno dire coccinella, topo, farfalla, piantina e anche parco nella lingua che l’amica parla solo con la mamma e che è l’ultimo legame con una terra quasi completamente dimenticata. Carletto, un bel biondino con il suo foulard attorno al collo, alza la mano e prima ancora che lo si possa far parlare scoppia in una risata: «Ci ha insegnato anche a dire ananas e kiwi: si dicono uguale!».

Aneddoti, ricordi, una quotidianità che accomuna sono la colla di un rapporto che giorno dopo giorno si fa più stretto. Nel cuore di tutti c’è la videochiamata fatta quel giovedì di metà maggio per rivedere, sullo schermo di un telefonino, il viso dell’amica confinata chissà dove, in un Paese lontano. Lo scenario: la stanza spoglia di un centro di accoglienza, l’aria ferma, nessun prato verzaschese sul quale correre e raccogliere i fiori.

Par di vederli, i compagni, riuniti attorno alla cattedra e col batticuore. Qualche squillo, la linea imperfetta, poi gli occhi di Satayesh tristi e contenti insieme, pigolando un "ciao" flebile, dolce come il suo sguardo. La ricorda bene, Fabrizio, quella mattinata triste, con la sedia vuota. Chiede il permesso di alzarsi, fila verso la libreria di classe e afferra un volume: «Le avevamo letto questa!». È la storia della mucca che sapeva volare.

Il momento di condivisione è terminato, guai a perdere la ricreazione. Ma rimane, giù in fondo, una mano alzata: è quella di Enea. La maestra Bianca lo indica, il ragazzino si sistema sulla sedia, cerca le parole, poi lo dice forte, come fosse una liberazione, puntando le braccia contro il banco: «Io non ho ancora capito perché non può stare qua!».

In classe cala il silenzio. Ci guardiamo. Guardiamo Satayesh. Ha una collanina che le impreziosisce il volto colore dell’ambra. Sorride. È bellissima.