Dai monti in fiamme del Gambarogno il caposezione forestale Roland David spiega la complessità dei processi naturali e l’incidenza degli incendi
A ogni incendio boschivo gli alberi, il nostro “capitale naturale”, pagano dazio. Rappresentano spesso una protezione per gli abitati, i collegamenti viari, frenano l’erosione dei pendii, assorbono il carbonio. La natura ne risente. Anche se alcune specie di piante si rigenerano in maniera sorprendentemente rapida dopo un incendio, altre muoiono e vanno, non di rado, ripiantate tramite interventi selvicolturali per accelerare la rigenerazione.
Quantificare i danni (non solo economici) al patrimonio boschivo di un rogo come quello che in questi giorni interessa i monti del Gambarogno è, ovviamente, prematuro. Bisognerà attendere il risveglio della natura in primavera per capire la reale portata del sinistro. Sono diversi i fattori che entrano in gioco. Uno di questi è la velocità con la quale le fiamme si propagano. Un incendio che passa velocemente attraverso un bosco generalmente arreca danni inferiori a un rogo che, al contrario, alimentato dalla presenza di molto legname secco e strame (biomassa), per giorni e giorni, arde.
Roland David, capo sezione forestale del Canton Ticino, si è recato di persona nel Gambarogno. Ecco la sua opinione: «In un incendio il danno al patrimonio boschivo dipende da molti fattori. Innanzitutto dal tipo di alberi toccati; in un bosco di latifoglie o piante pioniere, alla fine i danni possono magari anche risultare contenuti. Ricordo il caso dell’incendio di Chironico del 2016, che presenta delle affinità con quello di Indemini (periodo dell’anno, tipo di vegetazione, particolarità dei pendii). Fiamme altissime che facevano impressione e danni alla natura che, alla fine, risultarono inferiori al previsto». Il discorso cambia quando il sinistro colpisce un bosco di resinose. «Un incendio di questo tipo (fuoco di corona) solitamente non dà scampo alle piante. Porto il caso di Osco, dove il danno fu totale. Qualche pianta qua e là sembrò inizialmente essersi salvata, ma poi qualche stagione più tardi morì proprio per le conseguenze del fuoco, illudendo i forestali».
Non aiuta la vegetazione nemmeno il fatto che l’incendio sia divampato in inverno (quando la pianta cade in una specie di letargo) piuttosto che in primavera: «Purtroppo se la pianta riceve una forte scottatura al suo tessuto esterno, solitamente muore. I più letali sono comunque gli incendi tra maggio e fine estate, in occasione di lunghi periodi di siccità e temperature elevate. Periodi in cui si aggiungono, alla negligenza dell’uomo, gli incendi generati dai fulmini».
Vi è poi quello che, a detta di molti, può essere letto come il rovescio della medaglia; alcuni roghi di breve durata e intensità, infatti “fanno pulizia” di sterpaglie e neofite, favoriscono l’arrivo di più luce al suolo e la biodiversità. Come dire che da quando il mondo è mondo, le foreste sono sempre bruciate: «In Ticino sappiamo quali sono le aree boschive con funzione protettiva più soggette a devastazioni da incendi. Ed è lì che focalizziamo la nostra attenzione; la biomassa presente al suolo è un super combustibile e laddove i boschi svolgono una funzione particolare, in occasione d’invertenti di rinnovamento e cura andrebbe esportata. È una questione di giusto equilibrio. Tutto va insomma contestualizzato».