Locarnese

Capriola uccisa, scagionato l' ex capo dei guardiacaccia

In Pretura penale il caso del funzionario dell'Ufficio caccia e pesca accusato di aver manomesso le prove di un reato venatorio. Prosciolto per mancanza di elementi

7 maggio 2021
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Prosciolto da ogni accusa. Anche la più infamante per uno che ha trascorso buona parte della sua vita professionale a vigilare sul rispetto delle severe regole del mondo della caccia: quella di aver espressamente manomesso le mammelle di una capriola allattante, da lui stesso uccisa ai primi di settembre dello scorso anno, durante una battuta venatoria. L'ex capo guardiacaccia onsernonese, dal 2007 in pensione, secondo il giudice del Tribunale penale Marco Kraushaar che stamane, a Bellinzona, ha emesso la sua sentenza, non ha commesso i reati imputatigli. Troppi, ha detta del giudice, gli aspetti poco chiari di questa vicenda iniziata il 1°settembre di un anno fa, nei boschi di Vergeletto, in alta Onsernone. Con una fucilata, l'ex funzionario del Dipartimento del Territorio abbatte un ungulato. Una femmina di capriolo che, come spiegato dall'interessato stesso durante il dibattimento, «stavo seguendo da giorni nei suoi spostamenti, la osservavo proprio per accertarmi che non avesse piccoli al seguito. Un esemplare anche poco in carne». L'uccisione di una femmina allattante, secondo la legge sulla caccia, è assolutamente vietata e costituisce un reato. Purtroppo sono cose che nel periodo della caccia possono succedere. L'autore, in quel caso, deve autodenunciare l'accaduto che gli frutta poi una sanzione. E la storia finisce lì. Non questa, però.

Il ritardo nella consegna dell'animale e i primi sospetti

L'ex capo dei guardiacaccia, difeso in aula dall'avvocato Giacomo Garzoli, informa, subito, due guardie venatorie dell'avvenuta cattura. Queste si presentano nel suo cascinale per un controllo e, notato l'aspetto della mammella, sono certi che la povera bestiola allatti. Invitano il cacciatore ed ex collega a presentarsi, l'indomani, al punto di controllo a Losone. Quindi circa 24 ore dopo la cattura. Ed è solo in serata che il pensionato si presenta con la sua preda. Un lasso di tempo eccessivo che alimenta dei sospetti. La risposta dell'interessato: "Ho scelto quell'ora per comodità, visto che erano già le 19. Mi avessero chiesto di presentarmi immediatamente, lo avrei fatto e sarei sceso al piano anche prima". Secondo la Divisione dell'Ambiente, autorità inquirente (rappresentata in sala da un guardiacaccia della regione) che ha formulato due decreti d'accusa distinti (il primo per cattura di un animale proibito, il secondo per manomissione delle prove) i due guardiacaccia incaricati delle verifiche avrebbero a quel punto rilevato un apparato mammario alterato (i capezzoli avevano un aspetto rinsecchito) rispetto al giorno prima; forse un tentativo di nascondere il reato? A quel punto il pensionato, che contesta il parere dei due, chiede espressamente venga fatta una perizia che attesti la sua buona fede. «L'avrebbe fatto qualora non fosse stato certo di aver ragione?» Si è chiesto il legale. Il risultato della perizia svolta parallelamente da un centro specializzato in Ticino e da uno oltre Gottardo, rileva che vi sono tracce di acetone provenienti da un solvente impiegato, si ipotizza, allo scopo di prosciugare la mammella. Ciò che gli avrebbe permesso di farla franca. Interrogato, l'ex funzionario del Cantone, sorpreso dalle risultanze dei controlli sull'organo ghiandolare, nega ogni addebito. Siamo nel mese di dicembre. La Divisione dell'Ambiente gli infligge una multa, gli accolla le spese delle analisi e gli ritira pure la patente venatoria per un anno. Lui ricorre.

L'acetone, tipico del deperimento del cadavere

Oggi, come detto, la vicenda è arrivata al suo epilogo. L'avvocato Garzoli, che ha biasimato il ritardo nella trasmissione dell'organo incriminato per le analisi (7 giorni dopo la sua asportazione) e definito tendenziosi i rapporti dei due guardiacaccia, ha presentato i risultati di una controperizia per demolire il castello accusatorio. In sintesi, se fosse stato applicato del solvente alla mammella, sarebbe dovuto uscire del latte. Cosa che non è avvenuta se non in minima parte (qualche goccia); l'acetone, la cui presenza era stata accertata, sarebbe invece semplicemente il risultato del processo di decomposizione del cadavere, quindi una causa naturale. Essendo inoltre una sostanza volatile, com'era possibile rilevarne tracce a così tanto tempo di distanza? Sarebbe evaporato. Una superficialità e una mancanza di approfondimento da parte di chi ha condotto i controlli che lo ha spinto a chiedere l'assoluzione del suo assistito. Con ogni probabilità, l'ungulato ucciso aveva dato alla luce un piccolo, ma questo molti mesi prima della sua cattura. Probabilmente ai primi di giugno. Dopodiché la produzione di latte si sarebbe lentamente azzerata. «Si è voluta sdoganare una presunta malafede dell'imputato, con un'accusa grave e diffamatoria per la sua persona e la sua famiglia»- ha concluso Garzoli.
Affermazioni contestate dalla Divisione dell'Ambiente, stante la quale le foto scattate dai funzionari erano la prova inequivocabile di un intervento sulla mammella. Un organo poi depositato in una cella frigorifera in attesa delle perizie condotte anche dall'Ufficio del veterinario cantonale.
"Ritengo non ci siano elementi a sufficienza sicuri e chiari che provino una manomissione - ha osservato il giudice, a detta del quale la conservazione del reperto può aver inciso sul suo aspetto postumo. Quanto alla presenza di tracce di acetone, Kraushaar ha sposato il risultato della controperizia: «si crea con la decomposizione del tessuto, post mortem, in modo naturale. Non era presente nella ghiandola mammaria, bensì all'esterno. Al momento del controllo, la capriola non era dunque allattante». In mancanza di prove sufficienti, è valso il classico “in dubio pro reo”.
L'accusato, scagionato, otterrà dallo Stato un risarcimento di oltre 5mila franchi.