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‘Elephantonius’, vita d'artista (e di Verzasca) a Storie

Domenica sulla Rsi l'intenso ritratto documentaristico di Paolo Vandoni a Gianmario Togni, scultore alla ricerca delle origini

25 febbraio 2021
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Un ritratto può assumere più o meno profondità a dipendenza dello sguardo che si posa sul soggetto. Parliamo dell'interpretazione dei gesti, degli sguardi, dei silenzi. Della forza e delle debolezze, che non rimangono fini a se stesse, ma diventano elementi cardine di un carattere o di una caratterizzazione. In questo, “Elephantonius”, il documentario di Paolo Vandoni che passerà domenica sera a “Storie”, sulla Rsi, si distingue a più livelli. Quello principale riguarda la sensibilità nel prendere possesso di una storia, di una vita, per consegnarne ai posteri solo dei frammenti, ma nel modo più sincero possibile, e con grande rigore.

Di sensibilità a ben vedere trattava anche il penultimo lavoro di Vandoni per “Storie”, “Città Vecchia vita nuova”. Quello del nucleo di Locarno era stato definito “un ritratto crespuscolare” del territorio e di alcune scarne anime che lo popolano. Ma l'arte, si sa, difficilmente convive con settori più prosaici come il commercio, o la politica. Così lo sguardo autoriale – che pure era molto presente – aveva invaso altri campi e in essi si era perso, con le uniche conseguenze possibili.

“Elephantonius” è in questo senso un esercizio meno complicato proprio per l'assenza di implicazioni esterne. Racconta di Gianmario Togni, artista e scultore verzaschese, personaggio intriso di solitudine e di ricerca: delle radici, e, di conseguenza, di se stesso. «Se uno sta bene da solo – dice a un certo punto Togni – non è solitudine»: nel suo piccolo, una grande lezione di vita, oltre le convenzioni e i giudizi sociali. Il Togni di “Elephantonius” è distaccata ironia, semplicità e spessore. È l'arte vissuta come necessità e anche come appartenenza. Artisti si nasce: Giamario, tracciando i suoi itinerari verzaschesi, testimonia l'ammirazione per Eric Kappeler accarezzandone i muri d'arte a Vogorno; e l'affetto per Marino Torroni, la cui “arte istintiva" è un giubilo cromatico che tanto svela di parole forse mai dette. Ma è anche, il Gianmario, affetti radicati come quello per il cugino Walter, tornato in Verzasca dall'America, ex alcolista, struggente, alla chitarra, in una sua versione di Mr. Tambourine Man, il vagabondo che ha reso grande Bob Dylan. Varrebbe, il Walter, un suo proprio ritratto. Sarebbe ruvido come la corda che da oltre Atlantico l'ha riportato in valle.

Il film ha il pregio di raccontarci una Verzasca profonda come le inquietudini che la possono abitare. Ma mai trasmette inquietudine, semmai tenerezza, come trattando la bipolarità del protagonista, «masticata da solo», come da lui stesso affermato, e soprattutto mai rinnegata, ma accettata come risorsa. Ed è qui che emerge la capacità del documentarista di interpretarne i contorni con un gioco di riflessi, specchi ed immagini. Gianmario e il Togni, nel loro regno onirico, si prestano ad un esperimento di fiction inusuale per “Storie”, ma che il produttore Michael Beltrami ha avuto l'indubbio coraggio di ammettere quale efficace, innovativa soluzione stilistica. Così la ricerca delle origini avviene idealmente in groppa a un elefante che è assieme totem e simulacro. Lungo un cammino costellato di tracce artistiche, e umane, il suo autore ci accoglie nel suo straordinario, poetico mondo in cui sogni e realtà si confondono. A noi il compito di stabilire, o meno, un confine.