Storie di chi “chiuso in casa deve starci comunque”, ma ha dovuto affrontare la crisi alle prese con famiglie lontane e pazienti a rischio
Ormai allo scadere dei due anni dall’arrivo della pandemia in Ticino, inauguriamo una serie di articoli su come hanno vissuto questo periodo alcune categorie professionali lontane dai riflettori del dibattito pubblico.
«Chiuse in casa noi badanti dobbiamo starci comunque, anche senza Covid. Ma almeno prima avevamo i nostri momenti per incontrarci tra noi, festeggiare un compleanno o un’altra ricorrenza, uscire per un attimo dalla dimensione dell’accudimento. Negli ultimi due anni ci è mancato molto, tutto questo». Si sente la stanchezza nella voce di Ioana*, che da qualche anno accompagna una signora ultranovantenne allo stadio più avanzato del morbo d’Alzheimer. «Questo periodo è stato una sofferenza per lei, ma forse ancora di più per la sua famiglia: la signora non è più in grado di esprimersi, non può usare il telefono, e per lunghi periodi i suoi hanno dovuto rinunciare anche all’ultimo contatto rimasto, quello della vicinanza fisica», ricorda Ioana, rumena. «E poi a un certo punto non li potevamo neanche portare ai centri diurni», aggiunge la sua connazionale Silvia Dragoi, che dieci anni fa si è lasciata dietro Timisoara, due lauree e trent’anni di insegnamento: «Gli anni passano, i nostri assistiti invecchiano, la loro condizione peggiora e tu ti trovi sempre lì, chiuso dentro. Intanto la tua famiglia è lontana e non puoi rivederla, perché non sai mai se sarà abbastanza sicuro, se non finirai per mettere a rischio la vita di chi accudisci o semplicemente se dovrai finire in quarantena. Le amiche – anche loro badanti, perlopiù – le senti solo al telefono, ma non è la stessa cosa».
«E poi una badante – dico ‘una’ perché il 99,9% sono donne – sviluppa come un senso di responsabilità materna, qualcosa che però, con la pandemia e il fatto di stare ancor più chiuse in casa, finisce per raddoppiare le preoccupazioni e la paura del contagio, rendendo tutto più stressante», aggiunge Carmen Chiric, che anche dopo una riqualifica continua a seguire le sue ex colleghe a nome del sindacato Unia: «Nonostante queste difficoltà, va detto che tra noi si è creata una bella rete di sostegno. Specie in questo periodo è stato importante condividere le informazioni sanitarie, di viaggio, ma soprattutto una rete di solidarietà che aiutasse tutte a ritrovare un lavoro in caso di necessità». Un lavoro vero, perché «nel nostro settore c’è anche il rischio di ritrovarsi in condizioni di illegalità, o di non vedersi riconosciuta la giusta retribuzione per le nostre mansioni, che possono variare molto: c’è chi deve ‘solo’ aiutare con la compagnia e la spesa, e chi invece non può spostarsi dal capezzale di un malato e deve intervenire attivamente per curarlo. Per fortuna, col contratto normale il lavoro nero è molto diminuito», nota Chiric. E anche se certe famiglie faticano a sostenere i costi dell’aiuto a domicilio – sebbene molte badanti prendano 3-4mila franchi al mese –, nel corso di questo biennio si è rivelato ancor più cruciale «il sostegno dei parenti dei pazienti: spesso con loro nasce un rapporto di fiducia e di solidarietà reciproca, molto importante se abbiamo un’emergenza, un imprevisto. Molto spesso sono stati proprio i famigliari dei pazienti a darci una mano». Intanto, prosegue Chiric, «ci siamo organizzati per aiutare quelli di noi che erano in condizioni di necessità: chi doveva capire che documenti compilare e che controlli fare per spostarsi, chi magari era ammalato, in quarantena e aveva bisogno della spesa. O ancora chi doveva tornare in Romania o in Polonia dopo la morte di un assistito: una fase importante per ricaricarci insieme alla famiglia, ma anche per ricordarci come mai ce ne siamo andate».
Con o senza pandemia, il mondo chiuso in quattro mura di molte badanti costituisce una sfida sociale seria per una società che conta sempre più anziani. «Un contratto normale di lavoro esiste, e permette di regolare il salario. Ma non è la stessa cosa per altre condizioni: la tredicesima, il diritto alla privacy così importante in condizioni di convivenza, la regolamentazione delle spese per il vitto e l’alloggio, la garanzia di non essere costretti a svolgere mansioni terapeutiche per le quali non si ha una formazione specifica sono tutte condizioni derogabili tramite un contratto individuale». Ce lo spiega Chiara Landi, sindacalista Unia responsabile del settore terziario, che ci riferisce di come il collettivo badanti sia «nato proprio per rispondere a queste difficoltà». L’ideale, spiega Landi, «sarebbe un contratto collettivo di lavoro, ma per sottoscriverne uno allo stato attuale non esiste neppure una controparte ‘padronale’. Per cui dobbiamo agire altrimenti per migliorare le condizioni di lavoro».
Una priorità, spiega, «è il sostegno pubblico ai famigliari delle persone assistite: solo con l’aiuto economico dello Stato certe famiglie possono evitare pressioni al ribasso sul salario e sulle condizioni lavorative delle badanti. Condizioni migliori – in particolare la possibilità di alternarsi in turni – sono pensabili solo se lo Stato riconosce il loro ruolo nella grande rete dell’assistenza agli anziani, cosa che ora non avviene nella giusta misura».
Nel frattempo, la pandemia ha colpito duro e «chi si è trovato impossibilitato a lavorare non ha potuto beneficiare neppure del lavoro ridotto». Tra l’altro «sempre più badanti vengono non più dall’Est Europa, ma dall’Italia, hanno spesso una formazione infermieristica, ma per mesi si sono trovate anch’esse isolate dalla famiglia d’origine a causa dei rischi di contagio. Nel frattempo, il ruolo fondamentale di tutte loro si è reso ancora più evidente, ragione in più perché la politica si faccia carico di una situazione difficile».
*Vero nome noto alla redazione