I vertici dell’ente denunciano una situazione allarmante sugli alpeggi, che rischiano di venir abbandonati a causa della presenza del predatore
Fauci del lupo sempre più fameliche. E l’agricoltura di montagna delle valli locarnesi lancia un grido d’allarme, impotente di fronte al proliferare dei grandi predatori. Ne risentono anche i Patriziati, proprietari di pascoli e alpeggi, che si vedono sempre più ostacolati nei loro sforzi per gestire al meglio il territorio.
L’ennesimo esempio arriva dalla Bassa Vallemaggia, da Gordevio, dove nel 2024 le scorribande di almeno due esemplari hanno scombussolato la stagione alpestre. L’avvistamento di un lupo in paese a inizio maggio è stato solo il preludio di un disastro annunciato. Sui tre alpi caricati, Nimi, Mergozzo, Spluga, comprendenti anche i pascoli di Pizzit e Valàa, e sui maggenghi sottostanti, erano presenti a inizio giugno 297 caprini e una ventina di mucche scozzesi con alcuni vitelli. Il bilancio a fine stagione fa stato di quarantasei capre, due mucche e due vitelli persi. Di questi solo una dozzina di capi sono stati ritrovati e risarciti ai proprietari. In più nove capre sono state ferite e hanno impegnato ulteriormente gli allevatori che hanno dovuto curarle.
«Le abitudini alpestri sono state stravolte – spiegano il presidente dell’ente Mario Laloli e il segretario Paolo Maddalena –. In particolare per le capre, prima libere di scegliersi i pascoli migliori nelle fresche ore notturne, che sono state forzatamente rinchiuse alla sera e costrette a pascolare di giorno, sotto il sole, nelle adiacenze dell’alpe. A inizio settembre, con tre mesi buoni di anticipo, sono state rimesse in stalla al piano con tutti i problemi che ciò comporta: reperimento del foraggio supplementare, prolungata sedentarietà degli animali dannosa al loro benessere, più lavoro per l’allevatore, aumento delle malattie infettive, mancato pascolo nei maggenghi. A fine settembre, dopo oltre tre mesi dalle prime predazioni, è stato sì rilasciato il permesso per il prelievo di un esemplare di lupo, ma al 25 novembre, allo scadere del periodo utile per la cattura, i tentativi di abbattimento, per quanto si sa, non hanno avuto successo».
Gli alpeggi in questione sono considerati “non proteggibili” e per il prossimo anno le incognite sono molte: «Gli alpigiani, per ora, sono intenzionati a portare di nuovo le bestie sui monti. Per contro, altri allevatori che affidavano a loro le proprie greggi, vi hanno già rinunciato. Con i predatori in agguato è facile immaginare che ogni uscita al pascolo sarà sicura come una scampagnata in un campo minato. Con queste premesse l’abbandono totale della pastorizia è praticamente cosa fatta ed è qui che la questione tocca anche il Patriziato di Gordevio. Esso è infatti proprietario dell’alpe di Nimi come pure di tutti i pascoli del comprensorio e negli ultimi anni vi ha investito parecchie risorse per l’ammodernamento del caseificio, degli alloggi per il personale nonché delle varie infrastrutture. Un impegno che, con la cessazione dell’attività, è destinato a venir vanificato. Lassù rimarrà una cattedrale nel deserto dei nostri monti, che rimarranno deserti anch’essi perché pericoloso viverci. Sparito il bestiame minuto e decimata la selvaggina, i predatori non si metteranno a brucare ma punteranno a ciò che rimane: bovini e altro bestiame di grossa taglia, senza poter escludere persone e animali da compagnia». Le recenti azioni temerarie di Lostallo, con ripetute predazioni in paese a greggi correttamente protette, non sono che l’inizio, stando ai due intervistati. «La fine dell’allevamento e delle attività sui monti porta poi a tutta una serie di aspetti negativi: l’impoverimento della biodiversità, il rimboschimento dei pascoli, la cancellazione dei sentieri secondari non più percorsi, la perdita di tradizioni e prodotti genuini originari del posto, fra i quali il presidio slow food dei cicitt, la cessazione dell’attività didattica “percorso della capra” regolarmente proposta agli allievi delle scuole della Bassa Vallemaggia».
“La stagione d’alpeggio” fa parte dal 2023 del patrimonio culturale immateriale svizzero dell’Unesco: «Questo riconoscimento resterebbe monco per la perdita dell’importante realtà alpestre delle nostre valli – aggiungono Laloli e Maddalena –. Uno scenario che di colpo cancella la cultura di un territorio che i nostri antenati hanno fatto loro vincendo una dura, sacrosanta e legittima lotta per la sopravvivenza. Le creste, i boschi, le acque, gli spiazzi d’erba, sono da sempre stati il loro ambiente di vita e di lavoro quotidiano, la loro casa, la loro dispensa e, non di rado, il loro cimitero. Il profondo rispetto per quelle persone, che sono le nostre radici, è la forza che anima i Patriziati nel costante impegno per la cura del territorio». La recente decisione dell’Unione europea, ripresa dal Consiglio federale, di allentare lo statuto di protezione del lupo lascia ancora qualche speranza: «Si tratta ora di approfittarne appieno, dando avvio a un’incisiva politica di gestione, integrando una rigorosa regolazione degli effettivi con aiuti cospicui ed efficaci agli agricoltori che vorranno perseverare nella loro preziosa attività. Certamente questo maggior sforzo non risolverà per incanto il problema ma rappresenterebbe un segnale incoraggiante per chi vuole ancora proseguire con un allevamento tradizionale e rispettoso dei cicli naturali. In fin dei conti, se si guarda al passato, qui da noi abbiamo fatto a meno del lupo per 140 anni e il nostro territorio non ne ha patito la mancanza. Adesso bisogna gestire la situazione e non subirla, ci vogliono fatti concreti: le parole il lupo non le capisce».