Bisogna cercare alternative al sistema che ci ha portato alla crisi, ci spiega la ricercatrice Paola Imperatore
La crisi climatica non è solo una questione di clima, di temperature, di precipitazioni, di venti e correnti. È una questione di società, una questione di giustizia. Di questo si parlerà, nel terzo incontro del ciclo Emergenza Terra organizzato dal Dipartimento ambiente costruzioni e design della Supsi e che si terrà, a pochi giorni dall’inizio della 29ª Cop, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, domani mercoledì 13 novembre alle 18.30 nel Campus Supsi di Mendrisio. La serata vedrà anche, alle 20, l’apertura della mostra ‘A Theory of Waves: Case Study #3’ dell’artista, filmmaker e fotografo Marco Poloni, attuale direttore del Cisa.
Relatrice della conferenza sarà Paola Imperatore, ricercatrice all’Università di Pisa, alla quale abbiamo posto alcune domande.
Che cosa è la giustizia climatica?
Questo concetto emerge negli anni Novanta, all’interno dei movimenti altermondialisti che iniziano a connettere la globalizzazione dei mercati con la devastazione dell’ambiente, ma inizia a strutturarsi meglio e ad assumere una valenza politica e conflittuale tra il 2018 e il 2019, quando si affermano su scala globale movimenti climatici giovanili come Fridays for Future ed Extinction Rebellion.
All’inizio, infatti, i movimenti sociali, ambientalisti e contadini – non possiamo ancora parlare di movimenti climatici veri e propri – hanno guardato ai negoziati delle Cop difendendone l’importanza ma anche sollevando delle critiche: bene che ci sia questo strumento perché abbiamo bisogno di un consesso internazionale in cui affrontare questo tema e marginalizzare il negazionismo climatico, però gli obiettivi sono timidi e gli strumenti individuati non sono sufficienti. Nel 2018 questo approccio è cambiato: con l’emergere dei movimenti climatici e del paradigma della giustizia climatica, il rapporto è diventato più conflittuale. I movimenti hanno iniziato a delegittimare il quadro negoziale delle Cop, perché si sono resi conto che questo sistema non funziona e non è solo un problema di obiettivi modesti e mezzi scarsi.
Qual è quindi il problema delle Cop secondo questi movimenti?
La mancanza di volontà politica, da parte degli Stati e dei mercati, di mettere in discussione quel sistema di accumulazione di ricchezza persino intorno alla crisi climatica. Il sistema delle Cop non prevede un ripensamento radicale dei rapporti tra economia e natura, ma prova semplicemente a risolvere il problema delle emissioni attraverso strumenti di mercato, come lo scambio di quote di emissione.
Dentro questa prospettiva si inizia a formulare il concetto di giustizia climatica, inteso non solo come diseguaglianze tra Nord e Sud globale – che resta un tema fondamentale – ma mettendo in evidenza anche una dimensione di classe sociale. Si inizia a mettere in discussione la narrazione del “siamo tutti sulla stessa barca” per far vedere che ci sono responsabilità molto diverse sulle cause della catastrofe climatica, e che le conseguenze non ricadono su tutti allo stesso modo. Questo è il meccanismo che la giustizia climatica mette in luce: l’intersezione tra la crisi climatica e le altre forme di discriminazione o oppressione esistenti, perché c’è un nesso tra giustizia sociale e giustizia climatica.
Però se già il compito di ‘riparare’ il clima è complesso, quello di riparare anche la società appare impossibile.
Ma sono lo stesso compito. Il tentativo di risolvere il problema climatico attraverso gli strumenti che hanno generato il problema climatico, cioè il mercato, non solo non ha portato a una soluzione, ma ha peggiorato la situazione: se andiamo a guardare i dati sulle emissioni notiamo che dagli anni Novanta a oggi, da quando abbiamo un sistema negoziale globale che si occupa specificatamente di abbattere emissioni climalteranti, non c’è stata nessuna riduzione, non c’è stato nessun rallentamento e neanche una crescita contenuta: sono aumentate esponenzialmente.
Il capitalismo verde – che tra l’altro non so quanto futuro abbia di fronte a un pianeta che va in direzioni completamente diverse con la guerra, il negazionismo, l’avanzata dell’estrema destra – cerca semplicemente di dare un prezzo all’inquinamento, pensando che questo renda Paesi e aziende più virtuosi. In realtà questo non ha fatto altro che aprire nuovi segmenti di mercato trasformando i limiti e scarti ambientali in opportunità di profitto, con ulteriori danni per l’ambiente e gli ecosistemi. La mia è ovviamente una prospettiva parziale, però penso sia persino più utopistico pensare che il capitalismo abbia gli strumenti e l’interesse a risolvere questo problema.
Per riprendere le parole di un comico, ma allora rivolete il comunismo! Più seriamente, le alternative al capitalismo non è che si siano distinte dal punto di vista ambientale. Penso ad esempio alla Cina, per quanto sia difficile considerarla completamente estranea al capitalismo.
Ci muoviamo in un contesto globale in cui abbiamo capitalismi di mercato e capitalismi di Stato che comunque riflettono la stessa modalità aggressiva verso la natura e l’ambiente.
Il tema dell’alternativa è sempre tra i più scivolosi, soprattutto perché il capitalismo, inteso non solo come struttura di mercato ma come ideologia pervasiva della realtà, ha cercato in questi anni di imporsi come unico modello possibile: uno dei punti di forza del capitalismo è stato riuscire a convincere tutti che anche di fronte a una catastrofe globale – economica, climatica, sanitaria – questo è il migliore dei modelli.
Invece penso che lo sforzo che oggi dobbiamo fare è quello di provare a coltivare altri immaginari partendo da tante più o meno piccole esperienze sparse nel mondo. Queste sicuramente non hanno la potenza di fuoco che possono avere i grandi capitali finanziari ed economici o i grandi Stati, però cercano in qualche modo dal basso, dall’attività dei territori, delle fabbriche, delle comunità, di costruire delle alternative.
A quali esperienze si riferisce?
A movimenti territoriali, ma anche alle comunità agroecologiche, alle comunità operaie, alle esperienze zapatiste, al confederalismo democratico curdo. Ci sono tante esperienze nel mondo che danno stimoli per ripensare come vorremmo vivere partendo dalle esigenze collettive.
E i movimenti di protesta contro le cosiddette grandi opere? Sono spesso accusati di combattere, per egoismo o ignoranza, infrastrutture utili alle comunità e magari anche all’ambiente.
Quello che bisogna riconoscere a questi movimenti è di aver messo a nudo un sistema che utilizza le grandi opere e genera devastazione ambientale dietro promessa di progresso e occupazione. Quando andiamo a scandagliare per bene queste promesse, scopriamo tante altre cose dietro queste grandi opere. Corruzione e infiltrazioni mafiose che non arrivano secondariamente, ma sono alla base delle decisioni che hanno portato a costruire quelle opere. Vediamo un sistema di allocazione delle risorse assolutamente violento, che prende risorse dalla collettività per alimentare interessi che creano nocività ambientali e problemi sanitari e che impongono un paradigma di gestione e governo del territorio spesso violento, repressivo, eterodiretto.
Però allo stesso tempo – e questo è stato più importante – nel costruire processi di mobilitazione si costruiscono nuove relazioni sociali e nuove comunità. È proprio lì che sta l’elemento importante: dentro questi movimenti ci sono persone diversissime. Alcune magari agiscono inizialmente in modo più “egoistico”, ma dopo anni di riflessione e di mobilitazione collettiva, queste persone ne escono trasformate, diventano comunità e iniziano a pensare e coltivare un mondo diverso.
Da queste esperienze sono nate spesso prospettive diverse sulla gestione dell’energia, sulla democrazia energetica, sulla gestione dei rifiuti, sul governo democratico dei territori.
Tornando alle disuguaglianze sociali e climatiche, in che modo si intersecano?
È un tema studiato già da una ventina d’anni e ci sono diversi casi che mostrano questa intersezione tra razzismo, violenza di genere e crisi climatica, tra disparità tra classi sociali e crisi climatica, ma anche tra generazione e crisi climatica, perché ovviamente sappiamo che le generazioni più giovani sono quelle che andranno maggiormente incontro al collasso climatico.
Nel 2003, dopo un’ondata di calore estrema, l’Istituto di sorveglianza sanitaria francese fece un’indagine che mostrò come la maggior parte delle persone morte o ricoverate era principalmente povera: persone senza casa o con case piccole, costrette a vivere in condizioni di sovraffollamento, con pochi spazi dove potersi muovere per cambiare l’aria, oppure obbligate ad andare al lavoro. Nella recente alluvione a Valencia il governo regionale e le aziende hanno deciso di mandare comunque le persone a lavorare, privilegiando la produzione alla sicurezza.
E ancora: l’80% dei rifugiati climatici sono donne. In un sistema che si regge sui confini e sulla mobilità a senso unico tra Europa e Africa, Europa e Medio Oriente e tante altre zone del pianeta in cui noi possiamo tranquillamente viaggiare e muoverci ma in senso opposto non è possibile, tutte queste persone saranno esposte a una situazione catastrofica.
Un altro elemento fondamentale è emerso nel 2005 con l’uragano Katrina. L’80% delle vittime e dispersi erano persone non bianche. Non perché nel territorio l’80% degli abitanti fossero non bianchi, ma perché queste sono le persone che abitavano maggiormente le zone con più rischio idrogeologico, che avevano meno mezzi per scappare e che hanno avuto ritardi nei soccorsi.
Chiuderei tornando alle Cop: ci sono motivi per essere ottimisti sulla conferenza che si è appena aperta in Azerbaigian?
Non ho grandi attese: anche se si raggiungesse qualche accordo importante, non abbiamo garanzie che gli Stati Uniti rispetteranno gli impegni presi. Anzi abbiamo la garanzia opposta, perché Trump è stato molto chiaro su questo tema.
In più, negli ultimi anni stiamo assistendo a una tendenza sempre più preoccupante che vede una sempre maggiore presenza di grandi imprese e lobbisti: l’anno scorso c’erano più lobbisti del fossile che delegati dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico. Le asimmetrie di potere sono piuttosto evidenti e purtroppo questi incontri sono anche diventati occasione per siglare accordi legati ancora alle fossili.
Forse – questa è una delle poste in gioco della Cop in corso – si arriverà ad aumentare significativamente il fondo previsto per aiutare i Paesi più colpiti dalla crisi climatica. Ma la questione è: aiutarli come? Perché se poi il programma diventa la replica di quello che abbiamo visto col Fondo Monetario Internazionale, semplicemente vedremo all’opera nuovi meccanismi di dipendenza e sfruttamento.
La scelta di tenere la Cop29 in Azerbaigian è purtroppo indicativa di una tendenza a chiudere anche lo spazio della contestazione: parliamo di un Paese che si è distinto in questi anni per il mancato rispetto dei diritti umani e della libertà di stampa.
Non ci muoviamo in un quadro facile: mi chiedo se abbia senso continuare a far finta che l’attuale sistema sia l’unica possibilità, se davvero non vi sono alternative. Forse, e lo dico senza avere una risposta in tasca, dobbiamo dare più spazio all’immaginazione.