Prodotta da Arte, ‘Dj Mehdi: Made in France’ ricostruisce la storia di un protagonista della scena rap e della seconda ondata di ‘french touch’
Chissà se è un caso che proprio nel periodo in cui una parte del Paese e il governo di Macron flirtano con l’estrema destra nazionalista e identitaria, la Francia riscopre le sue radici hip-hop. Se la cerimonia di apertura delle Olimpiadi ha celebrato l’elettronica di inizio ventunesimo secolo e la cultura dei club che animano le notti di Parigi, tenendo fuori il rap delle banlieue, ci pensano due serie tv recenti a completare il puzzle.
Realizzata da Arte e distribuita su Netflix, due anni fa aveva ottenuto attenzione anche fuori dai confini esagonali ‘Reign Supreme’, che raccontava la storia del gruppo parigino NTM. Una serie tradizionale, con attori giovanissimi che interpretavano Joey Starr e Kool Shen senza sapere chi fossero, che aveva il pregio di non dimenticare la figura chiave di Dj Dee Nasty e il significato profondamente contro-culturale che aveva la cultura hip-hop nella Francia degli anni Ottanta. La serie si apriva con Dee Nasty che di ritorno da un viaggio a San Francisco trovava il proprio appartamento parigino svaligiato, svuotato della sua collezione di dischi rock. Elemento reale (Dee Nasty, come i membri di NTM, ha partecipato alla produzione della serie) o simbolo del passaggio brusco dalla musica per chitarra, predominantemente bianca, alla nuova cultura black, basata su deejaying e breakdance. Dee Nasty realizzerà il primo album rap francese: ‘Paname City Rappin’ e aprirà la strada, con il suo lavoro in radio, alle nuove generazioni di rapper: la serie si chiude in un certo senso sul più bello, con l’arrivo al successo di NTM, con il passaggio dal mondo di ieri a quello in cui, più o meno, viviamo ancora oggi (la serie in lingua originale si intitola, appunto, ‘Le Monde de Demain’).
Poche settimane fa, prodotta sempre da Arte e disponibile anche su YouTube, è uscita la serie documentaristica in sei puntate ‘Dj Mehdi: Made in France’, che ricostruisce la storia di un altro cardine su cui ha ruotato la cultura musicale francese, stavolta a cavallo tra i primi due decenni del ventunesimo secolo. Dj Mehdi è stato un produttore fondamentale sia per la scena rap parigina che per la seconda ondata di quella che è conosciuta internazionalmente come “french touch”. Ma è soprattutto la sua storia e la complessità della sua figura a rendere questa serie qualcosa di più di un documento culturale – sono stati intervistati suoi familiari e tutti membri più importanti dei gruppi e dei collettivi con cui Mehdi ha lavorato.
Una storia interrotta anzitempo (nel 2011) da un incidente stupido, banale anche se assurdo, “non degno” della figura stessa di Mehdi, come dice la sua ex compagna nell’ultimo episodio, alla fine di una serata passata con gli amici e conclusa sulla terrazza del suo appartamento, dove un vetro del tetto d’ardesia ha ceduto facendolo cadere nel vuoto.
Mehdi Favéris-Essadi è stato, prima di tutto, un enfant prodige. Anziché comporre musica al piano o scrivere il suo primo romanzo a dieci anni, Mehdi nella sua stanzetta di Colombes, periferia nord di Parigi, tagliando e incollando il nastro di un magnetofono qualsiasi creava i suoi primi beat e trafficando con cavi e componenti elettroniche si è costruito da solo il suo primo sampler, copiando il libretto di istruzioni di un vero sampler, che costava ovviamente troppo. Il padre era francese mentre la famiglia della madre veniva dalla Tunisia: negli anni Sessanta era stata la prima famiglia di pelle nera di Gennevilliers e, come racconta la voce di Mehdi, i servizi sociali non sapevano bene cosa fare con loro, la sola idea che ebbero fu quella di cambiargli i nomi mussulmani con nomi francesi. Era una famiglia di musicisti e cantanti, che organizzava feste e balli in casa e incentivava i giovani a suonare percussioni e piano. Curioso, con una memoria e un intuito straordinari, Mehdi ha imparato da solo a suonare la chitarra e a dodici anni aveva una cultura musicale superiore a quella di un adulto francese. Poi un giorno ha fatto sentire le sue basi a un collettivo di rapper parigini a lui coetanei, gli Ideal Junior, e ne è entrato subito a far parte. C’è qualcosa di dolcemente nostalgico nelle scene in cui Kery James, il leader del gruppo, e Dj Mehdi camminano per le strade di Parigi come due bambini mascherati per halloween da rapper: ma loro sono stati i primi, i prototipi di una cultura che non esisteva.
All’inizio degli anni Novanta il rap non solo era visto male per via dei testi violenti (non certo i loro, che prima ancora della pubertà riempivano le loro canzoni di consigli e positività nello stile del loro mentore Mc Solaar) ma oltretutto era ancora una cultura povera, su cui nessuno avrebbe scommesso un euro – o meglio: un franco.
Nei dieci anni successivi i ragazzini crescono diventano gli Ideal J e nel 1998, in anni di continue rivolte in banlieue, producono un primo album dal forte impatto: ‘Le Combat Continue’. Il rap ormai è diventato il linguaggio delle nuove generazioni e l’anno successivo gli Ideal J arrivano a riempire un teatro prestigioso come l’Elysée Montmartre. I protagonisti dell’epoca ricordano gli Champs Elysées pieni di fan: “Era come se avessimo vinto la Coppa del Mondo di nuovo”. Dj Mehdi, sempre più raffinato e tecnicamente all’avanguardia, inizia a produrre tutti i rapper della periferia nord di Parigi riuniti sotto il cappello di ‘Mafia K’1 Fry’ (che in “verlan”, il dialetto dei coatti che funziona invertendo le sillabe, suona come “Mafia Africana”). Nel 2000, con il disco ‘Les Princes de la Ville’ del gruppo 113, che in due mesi diventa disco d’oro, vincono il premio “Victoires de la Musique” solitamente riservato a cantautori e artisti pop, insomma alla musica “bianca” francese. L’establishment musicale francese a quel punto capisce che ci sono dei soldi da fare anche con il rap.
Dj Mehdi, però, come Paganini, non amava ripetersi. A venticinque anni aveva contribuito alla storia del rap francese e sentiva il bisogno di passare a qualcosa di diverso, compiendo un lento quanto doloroso passaggio alla musica elettronica. Anche perché il “sampling” – l’arte di utilizzare pezzi di brani preesistenti, tagliati, incollati, distorti, accelerati, rallentati – per creare nuovi beat, gli stava procurando dei problemi legati ai diritti (ed è il motivo per cui, oggi, ‘Les Princes de La Ville’ non si trova in streaming). Meglio, quindi, produrre musica propria. Nonostante l’iniziale insuccesso dei primi dischi solisti, e la diffidenza con cui guardava ai suoi nuovi interessi il mondo del rap, grazie al sostegno di giganti dell’elettronica come Daft Punk e Cassius, Dj Mehdi trova la sua strada e insieme all’amico Busy P fonda la Ed Banger records. Nel 2006 pubblica un album ancora oggi molto rilevante, ‘Lucky Boy’. Sta nascendo una nuova ondata di artisti francesi. Non solo musicali, oltretutto, come il regista Romain Gavras, i cui film oggi vengono presentati a Cannes e che ha iniziato proprio girando i video musicali della Mafia K’1 Fry e di Ed Banger, tra cui il capolavoro ‘Signatune’ di Dj Mehdi (o lo scandaloso ‘Stress’ dei Justice, in cui un gruppo di banlieusards vandalizzava Parigi, una versione iperviolenta e nichilista di ‘La Haine’). Una manciata di musicisti francesi che arriverà a suonare nei principali palchi internazionali, come quello del Coachella, e a collaborare con i principali artisti hip-hop americani, Kanye West, Jay Z, chiudendo il cerchio.
La storia di Dj Mehdi, quindi, è la storia di un artista eclettico che in poco più di trent’anni (è morto che ne aveva trentaquattro) ha saputo costruirsi ben due carriere musicali, portando con sé al successo una dozzina di artisti, unendo come un ponte due mondi lontani che tra di loro non comunicavano: il rap delle banlieue e l’elettronica delle discoteche del centro di Parigi, lasciando in ognuno di loro un ricordo indelebile. “Il suo nome”, dice la madre di Mehdi, “significa colui che riunisce”. ‘Dj Mehdi: Made in France’ è la storia di un genio musicale contemporaneo, che ha rappresentato pienamente la storia del suo Paese e del suo tempo ma il cui talento era fuori dal tempo, che avrebbe potuto vivere in qualsiasi epoca e nascere in qualsiasi Paese. È impossibile non invidiare il coraggio e la sicurezza con cui Dj Mehdi ha portato avanti la propria ricerca, con generosità e spirito collaborativo, seppur in un mondo competitivo e machista come quello del rap degli anni Novanta. È impossibile non invidiare la facilità con cui, semplicemente, era se stesso. La più grande lezione lasciata da Dj Mehdi, insieme alla sua musica, alla fin fine è proprio questa. Lo ricorda Kery James, il rapper dodicenne con cui tutto è iniziato: quando qualcuno aveva un’idea Mehdi gli diceva: “Vai, fallo. Su, avanti, fallo”. Per lui non c’era niente di impossibile. Niente di irraggiungibile.