Dopo la notizia dell’arrivo di Zalando in Ticino, con Cantoni (Usi) inquadriamo origini e implicazioni di questo e affini sistemi di e-commerce di vestiti
«Una delle condizioni per far decollare il commercio online nel settore degli indumenti, in cui la dimensione del provare e del toccare è molto forte, è sicuramente stata la possibilità di poter restituire la merce senza penalità. Perché un conto è vedere un vestito in fotografia su un modello o una modella, un altro è vederlo su di noi: il modo in cui casca, come lo sentiamo quando lo indossiamo. Sotto questo aspetto la politica dei resi gratuiti è comprensibile e risponde a una legittima aspettativa degli utenti, tanto che nell’Unione europea per un certo periodo era obbligatoria. A essere problematico è l’altissimo numero di restituzioni dovuto a pratiche dei clienti assai poco raccomandabili, incentivate dallo stesso sistema, come quella di ordinare tre taglie diverse di un certo capo sapendo che almeno due saranno da rimandare indietro». Le parole del professor Lorenzo Cantoni, responsabile del master in Digital fashion communication all’Università della Svizzera italiana, evidenziano alcuni tratti di un fenomeno sdoganato durante la pandemia e nel frattempo consolidatosi – quello delle piattaforme digitali per il commercio di abbigliamento – che nell’ultima settimana è stato al centro dell’attenzione mediatica e politica ticinese a seguito del prospettato approdo del colosso tedesco della moda online Zalando a Sant’Antonino, dove negli spazi finora occupati da Luxury Goods International (Lgi) aprirà un centro per la gestione dei resi affidato alla multinazionale statunitense Gxo Logistics.
Per stessa ammissione di Zalando, in media un articolo venduto su due torna indietro. Le implicazioni del fenomeno sono numerose sotto diversi profili, da quello ambientale a quello economico passando per quello sociale. Basti pensare che ogni prodotto reso comporta un nuovo trasporto, un controllo della merce, un suo riconfezionamento, l’inserimento delle informazioni in un database, talvolta un lavaggio e una stiratura o una piccola riparazione. Questo laborioso iter fa sorgere la domanda se per i capi meno costosi non sia più conveniente la distruzione. L’azienda tedesca sostiene che il 97% dei resi venga rimesso in vendita e solo pochi millesimi del totale degli articoli finiscano distrutti. Tuttavia inchieste giornalistiche internazionali mettono in dubbio la cifra e sostengono che andrebbe al macero una percentuale ben maggiore di vestiti nuovi. «Il tema dei numerosi chilometri percorsi – considera anzitutto Cantoni – riguarda in generale tutto il settore della moda. Spesso la materia prima proviene da un Paese, la tessitura viene fatta in un altro, la colorazione e il finissage in un altro ancora. Sono gli effetti della globalizzazione. È da rilevare che negli ultimi tempi i grandi operatori dell’e-commerce si stanno mostrando sempre più impegnati a compensare le emissioni di CO2 prodotte dalle proprie attività e a utilizzare imballaggi 100% riciclabili».
Quanto davvero sia sostenibile l’operato di queste aziende al di là delle dichiarazioni pubbliche non è tuttavia dato sapere. «Personalmente non ho una visione dietro le quinte di Zalando, ma ho ragione di pensare che dichiari la verità – dice Cantoni –. Quello che però succede spesso, come è il caso proprio dei centri di smistamento in Svizzera compreso quello che arriverà a Sant’Antonino, è che per alcune attività l’azienda faccia “outsourcing”, ovvero si affidi ad attori terzi sull’agire dei quali non vengono fornite informazioni dettagliate. In molti casi dunque l’azienda nei propri rapporti fa dichiarazioni estremamente precise rispetto a sé, che però non si possono trasferire automaticamente ai processi subappaltati. Lo abbiamo visto anche di recente in alcuni scandali che hanno coinvolto marchi di lusso francesi e italiani, come Armani, che si serviva di società accusate di caporalato. Da questionare in questi casi è la responsabilità della casa madre».
Secondo i sindacati Zalando avrebbe scelto di insediarsi in Ticino – dove creerà 200 posti di lavoro dopo aver rescisso il contratto con Ceva Logistics (col conseguente licenziamento di 350 dipendenti) che proprio della gestione dei resi si occupava nel Canton Soletta – per poter attingere a manodopera a basso costo, vale a dire al bacino di frontalieri italiani, al fine di massimizzare i profitti. I timori sono alimentati dal fatto che Gxo è sotto inchiesta in Italia per attività fraudolenta volta allo sfruttamento del personale. «Da informazioni lette sui media, già nel centro di smistamento di Soletta la stragrande maggioranza del personale era straniera – indica il professore –. Non sarebbe una novità se facessero qualcosa di simile in Ticino. È fondamentale che i sindacati e il Dipartimento finanze ed economia facciano dei controlli molto rigorosi affinché non si verifichino comportamenti sleali e irrispettosi verso i lavoratori. Ciò premesso, il fatto che Zalando apra un centro nel nostro cantone non mi sembra negativo, perché se le persone utilizzano una simile modalità di acquisti, i resi esistono e questo presuppone che vadano trattati. Se ciò avviene in un posto lontano magari ci fa stare più sereni con la nostra coscienza, ma è un ragionamento discutibile».
Quanto agli effetti dello sviluppo dell’e-commerce sulle piccole boutique di abbigliamento, stando a Cantoni «l’online non ha sostituito l’acquisto nei negozi. Questo è successo durante il Covid, ma in seguito le percentuali di vendita attraverso internet sono calate». Quel che invece è accaduto, spiega il professore, è che i negozi fisici stanno sempre più cercando di entrare in dialogo con il digitale: «La tendenza è quella dell’omnicanalità, cioè della possibilità di avere diversi punti di contatto fra i clienti e l’azienda». Per Cantoni la vendita di abbigliamento online ha vari vantaggi, di cui il principale è l’accesso a un’offerta più ampia per soddisfare i diversi desideri e gusti, unito alla rapidità della transazione. «Naturalmente questo è anche un tallone d’Achille – evidenzia l’esperto –. Come detto c’è chi ordina più del necessario per poi restituirlo e proprio anche la rapidità incentiva il moltiplicarsi degli ordini». Cantoni, che si occupa pure di turismo, traccia un parallelismo con questo settore: «Ci sono persone che in mancanza di una penale prenotano più alberghi per lo stesso fine settimana in località diverse e poi, quando le previsioni meteo sono chiare, in base a quelle decidono dove andare e un paio di giorni prima disdicono nei luoghi scartati. È chiaro che una simile politica può avere degli effetti distorsivi sulle pratiche degli utenti».
Per il ricercatore d’altro canto proprio le tecnologie digitali possono essere d’aiuto per far fronte a certe storture. «Tornando alla moda, sempre più aziende si stanno affidando a dei sistemi di realtà aumentata attraverso cui è possibile ad esempio vedere un vestito addosso a un avatar creato a nostra immagine e somiglianza. Ci sono anche i cosiddetti “specchi magici” per i negozi in cui la persona può vedere il capo di abbigliamento indossato in diversi colori o taglie. Questo permette di ridurre i trasporti degli abiti svincolando la boutique dal dover disporre nel proprio assortimento di tutte le taglie e i colori, ordinando quelli mancanti nel caso in cui l’acquirente li desideri».
Recentemente nel ramo dell’e-commerce si stanno fortemente espandendo piattaforme cinesi di articoli a prezzi estremamente bassi come Shein e Temu «che tengono svegli la notte molti produttori europei», per dirla con Cantoni. Temu è finita sotto la lente della Segreteria di Stato dell’economia (Seco) per sospetta concorrenza sleale. «Quando si parla della Cina, considerando anche le pratiche del lavoro forzato, la questione è particolarmente complessa perché è molto più difficile capire chi ha prodotto un oggetto e in che condizioni – sostiene Cantoni –. Viene anche sfruttato il fatto che non sono imposte tassazioni di passaggio di dogana e quindi in molti casi le spedizioni partono direttamente dalla Cina con un impatto a livello di trasporti molto alto. La soluzione passa da un intervento politico sul piano della fiscalità e su quello della verifica degli standard di qualità accettabili alle nostre latitudini».
Cantoni tiene tuttavia a precisare: «Non bisogna scadere nel demonizzare a tutto campo il fenomeno della “fast fashion” – la moda di vestiti a basso costo – mettendola in contrapposizione ai marchi costosi in quanto ha permesso a persone non ricche di avere abiti belli e un guardaroba più esteso. A volte si sentono affermazioni di chi è in posizioni privilegiate e guarda con disprezzo coloro che comprano merce a basso costo, come se fossero i responsabili di tutti i mali. Anche i grandi brand di lusso, come visto, possono presentare degli aspetti di non spiccata moralità». Insomma il tema è complesso e un approccio manicheo non è utile. C’è da considerare poi che a fare da tela di fondo a tutto questo discorso c’è una società in cui l’immagine viene prima di tutto. «Questi operatori esistono perché c’è un mercato, ci sono persone che vedono un indumento su Instagram, lo comprano da indossare il weekend successivo e poi magari quell’abito lo dimenticano in un cassetto. Spesso ci chiediamo se il prodotto sia sostenibile dal punto di vista delle materie prime, della fabbricazione, del trasporto, ma non lo facciamo dal punto di vista dell’uso. Invece un vestito, anche quando magari è fatto di materiali problematici, se lo trattiamo bene e lo utilizziamo tanto, diventa più sostenibile».
Per uscire da un modello di business vorace legato a questa società dell’apparenza, secondo Cantoni è fondamentale puntare sulla “fashion literacy”, l’alfabetizzazione nell’ambito della moda. «A scuola già si istruiscono i bambini sul fatto che sia meglio mangiare una mela piuttosto che una merendina preconfezionata, quindi sull’alimentazione ci aspettiamo che la scuola ci aiuti. Quando invece si tratta di comprare un paio di scarpe o un abito, in pochi sia piccoli che grandi sono capaci di distinguere il tipo di filato, come è stato prodotto, o più in generale riconoscere i diversi detersivi e il loro impatto sull’ambiente e le persone. Credo sia necessaria questa educazione che porti le persone a capire che invece di comprare otto oggetti fatti con materiali inquinanti problematici è meglio prenderne quattro che durano di più. Sicuramente ne guadagneremmo tutti in qualità di vita».