laR+ aiuto al suicidio

‘Una gigantesca, orribile e cinica messa in scena’

Il presidente della Commissione nazionale d’etica in materia di medicina umana si esprime sul caso ‘Sarco’. Auspica una discussione su regole e controlli

Markus Zimmermann
(Keystone)
26 settembre 2024
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Markus Zimmermann è seduto nel suo ufficio al primo piano di uno degli edifici dello storico campus dell’Università di Friburgo, quello di Miséricorde. Parla in modo pacato, ma deciso. Chiede se vogliamo chiudere la finestra semiaperta, da dove il rumore del traffico si insinua nell’angusto locale. No, va bene così. Dopo un po’ lo chiede di nuovo. Ok, la chiudiamo. Togliamo dal taschino il blocchetto degli appunti. Posiamo sulla scrivania il registratore, lo azioniamo. Ma il professore di etica sociale cristiana ha già cominciato a parlare.

Il tema dà molto da pensare al presidente della Commissione nazionale d’etica in materia di medicina umana (Cne), che di recente ha perso il padre ultranovantenne, morto nel suo letto circondato dai famigliari più stretti. Il primo suicidio con la capsula ‘Sarco’, lunedì nel Canton Sciaffusa, gli riporta alla mente «la cosa peggiore» degli inizi della pandemia: «Le persone che morivano isolate, nei reparti di cure intense, senza i loro cari vicini, senza accompagnamento. Appena morti, venivano messi in un sacco di plastica e i loro corpi bruciati: era orribile. Solitudine, isolamento: vedo un certo parallelismo tra quello che è successo allora e il primo suicidio con ‘Sarco’».

La notizia l’ha scioccata?

Non proprio. Philip Nitschke [il 76enne australiano attivista a favore dell’eutanasia che ha inventato il dispositivo, ndr] fa questo tipo di cose da moltissimi anni. Negli anni 90 ha inventato un programma informatico, denominato ‘Deliverance’ [liberazione o salvezza, ndr]. La persona che voleva togliersi la vita doveva semplicemente premere un bottone [mima il gesto, ndr]. Azionava così una macchina che dapprima somministrava per via endovenosa diversi farmaci, e in seguito anche una sostanza mortale. Da allora propaga sempre la stessa idea: ‘democratizzare’ l’aiuto al suicidio, fare in modo che questo si svolga senza il coinvolgimento di un medico. Il che può sembrare paradossale, visto che lui stesso è medico.

Soldi, convinzione, fanatismo, sete di fama: cosa lo muove, secondo lei?

Non lo so, non lo conosco personalmente. Ma credo di aver capito molto bene la sua ‘visione’: è contro il ‘paternalismo medico’. Nitschke ha un problema con la sua professione, non so perché. Non sono uno psicologo, ma azzarderei una diagnosi a distanza: un grosso disturbo della personalità, un enorme bisogno di affermazione. È sempre lui al centro, non le persone che muoiono nel suo sarcofago. Oggi il suo nome e la sua fotografia sono su tutti i giornali del mondo [ride, ndr], mentre lui segue a distanza, dall’Olanda dove vive, quanto succede qui [è stato il quotidiano olandese ‘de Volkskrant’ martedì a riferire della ‘prima’ mondiale di ‘Sarco’, ndr].

Perché ha scelto la Svizzera?

In Svizzera al momento un medico è libero di dire ‘Ok, ti aiuto’, oppure ‘No, non ti aiuto’. In quest’ultimo caso, nessuno lo può denunciare. Non esiste alcun diritto all’aiuto al suicidio. I cittadini sono in tutto e per tutto dipendenti dai medici in quest’ambito.

Eppure la Svizzera è uno dei Paesi più liberali al mondo per quanto riguarda l’aiuto al suicidio. Ad esempio: non dev’essere per forza un medico ad assistere la persona che si sta togliendo la vita.

Durante l’atto in sé, no. Ed è così in effetti che in molti casi avviene. Ma è un medico che deve prescrivere il Pentobarbital [il farmaco utilizzato nei suicidi assistiti, ndr]. E non esistono mezzi alternativi. Una ventina di anni fa l’organizzazione Dignitas di Ludwig Minelli ci ha provato: le persone andavano in un parcheggio a Zurigo, entravano in una macchina e infilavano la testa in un sacco di plastica riempito di elio. Gli abitanti dei paraggi e le autorità non lo tollerarono. E alla fine questa prassi venne vietata. Minelli è uno dei motivi per i quali in Svizzera oggi dovremmo avere una regolamentazione migliore.

Una regolamentazione di che tipo?

Chi ha la risposta merita il Nobel [ride, ndr]. Non a caso a oggi non ne abbiamo una. Un modello potrebbe essere il ‘Death with Dignity Act’ [legge sulla morte con dignità, ndr], entrato in vigore nel 1997 in Oregon e poi adottato in altri Stati americani. Ma in Svizzera – dove l’aiuto al suicidio è punibile solo se dettato da “motivi egoistici” – regole così restrittive non passerebbero in Parlamento, perché significherebbe proibire molte delle pratiche seguite sin qui.


Keystone
Il sarcofago è stato presentato in luglio in una conferenza stampa a Zurigo

Dopo la presentazione a Zurigo della capsula ‘Sarco’ da parte dei responsabili di ‘The Last Resort’, la Cne si è pronunciata per una regolamentazione e una sorveglianza più severe. Di cosa parliamo?

Già nel 2005 e nel 2006 la Cne ha pubblicato due rapporti. Il secondo conteneva oltre dieci proposte concrete sugli aspetti che una legge sull’aiuto al suicidio avrebbe dovuto regolamentare. Ad esempio: come comportarsi nel caso di bambini e adolescenti? O in caso di doppio suicidio, quando in una coppia il marito malato terminale vuole ricorrere al suicidio assistito e anche la moglie sana vuole farlo, o viceversa? Cosa bisogna fare quando a chiedere di suicidarsi sono persone con una malattia psichica?

Cos’è rimasto, vent’anni dopo?

Niente. Da Arnold Koller [1987-1999, ndr] in poi, quasi tutti i consiglieri federali responsabili della giustizia si sono confrontati col problema. Eveline Widmer-Schlumpf [2008-2015, ndr] aveva in mente una formulazione alternativa dell’articolo 115 del Codice penale sull’istigazione e l’aiuto al suicidio; e a suo tempo anche il procuratore capo del Canton Zurigo Andreas Brunner, nel frattempo andato in pensione, aveva formulato una proposta di legge. Ma in entrambi i casi non se n’è fatto nulla. Anzi, non se n’è nemmeno discusso.

La politica dunque qualcosa deve fare.

Sì. Persino il Tribunale federale lo dice, in alcune sue sentenze. E anche l’Accademia svizzera delle scienze mediche già anni fa aveva segnalato il bisogno di agire. Un buon compromesso svizzero sarebbe di elaborare una legge ‘minimalista’, che funga da base per la sorveglianza delle pratiche delle circa otto organizzazioni attive nel settore. Si tratterebbe semplicemente di una regolamentazione indiretta. Adesso ogni singola organizzazione stabilisce i propri criteri e si sorveglia da sé: non esistono regole generali. La più grande di queste organizzazioni, Exit Deutsche Schweiz, ha persino una commissione etica. Ma anche lei si auto-sorveglia. E così non funziona.

Perché?

Il problema è che in Svizzera i casi di suicidio assistito continuano a crescere. Al momento ne abbiamo circa 1’500 all’anno. E parliamo solo di persone residenti nella Confederazione, non di chi arriva dall’estero. L’incremento è esponenziale, e la tendenza si rafforzerà negli anni a venire. Il suicidio assistito in Svizzera sta diventando una pratica quotidiana.

E con ‘Sarco’ sarà anche meno caro.

‘Sarco’ per me è completamente assurdo. Basti pensare alla prima esperienza di cui si è venuti a conoscenza: una donna che si era preparata negli Stati Uniti e che avrebbe dovuto togliersi la vita nel sarcofago in Vallese, con vista sul Cervino. Una gigantesca, terribile messa in scena: la sofferenza insopportabile, inconcepibile, patita da una singola persona, viene ‘mediatizzata’ e mostrata al mondo intero. È cinico! Non a caso la prima persona in assoluto a suicidarsi con la capsula, nel Canton Sciaffusa, è una donna verosimilmente americana. La Svizzera qui viene utilizzata da ‘The Last Resort’ come piattaforma e ridicolizzata, dato che il suicidio è avvenuto subito dopo il primo intervento ufficiale da parte di una consigliera federale. Credo che sarà un grosso problema anche sul piano diplomatico. Le svizzere e gli svizzeri se ne rendono conto: per questo sono convinto che Sarco non riuscirà a prendere piede nella Confederazione. Quantitativamente non avrà rilevanza. A prescindere da come i giudici si esprimeranno.


Keystone
Il primo suicidio con la capsula è avvenuto lunedì in un bosco del canton Sciaffusa

Ha definito “inumano” dal punto di vista etico il modo di procedere di Nitschke e della sua organizzazione. In che senso?

‘Inumano’ è la modalità del morire. Oggi c’è una nuova narrazione sull’ars moriendi, l’arte del ‘morire bene’. Sono diversi i modelli positivi. Morire rinchiusi in una capsula, soli, isolati non rientra in nessuno dei modelli che io conosco.

Nitschke vanta il fatto che, dopo aver premuto il pulsante, l’azoto si diffonde nella capsula e la persona al suo interno muore per asfissia prima che sopraggiungano panico e senso di soffocamento.

Mi viene in mente che, in ‘Così parlò Zarathustra’, Friedrich Nietzsche – che soffriva di una terribile e costante emicrania – si prende gioco dell’incapacità di soffrire dell’uomo moderno dell’epoca: “Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. (...) Di quando in quando un po’ di veleno: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno alla fine, per procurarsi una piacevole morte.” Oggi Nietzsche avrebbe detto la stessa cosa: sparire senza immergersi nella sofferenza, senza alcun dolore, senza alcun senso, semplicemente premendo un pulsante? È il massimo del cinismo!

[pausa, ndr]

Mettiamola in questi termini… Ci dev’essere una ragione esistenziale perché una persona soffre a tal punto da non più poter continuare a vivere. Dal momento che io – come medico, famigliare o amico – le chiedo ‘perché?’, vengo coinvolto. E prima o poi, eventualmente, può sopraggiungere l’idea che davvero possa aiutarla a togliersi la vita, dato che la sofferenza è insopportabile. Con ‘Sarco’ invece avete qualcuno che sta seduto a migliaia di chilometri di distanza dalla persona che soffre, e che lui manco conosce. ‘Inumano’ è in realtà la parola sbagliata, perché tutto questo non corrisponde nemmeno alla nostra ‘condition humaine’.

[pausa, ride, ndr]

Mi occupo da oltre 30 anni di questi temi, che mi appassionano sempre di più perché invecchiamo e la domanda ‘Come possiamo morire bene?’ si pone con sempre maggior insistenza.

Ha mai visto qualcosa di simile a Sarco?

Rispondo in due tappe. La prima: credo che oggi si tenda a reprimere il lato crudele della morte. Scioccante è la morte lenta di qualcuno sotto le macerie, dopo un terremoto; di un senzatetto deceduto in strada a causa del freddo; di una persona che abitava nel palazzo ‘sbagliato’, bombardato in Ucraina, a Gaza, in Libano o altrove. La morte in questi casi ha un’enorme dose di crudeltà. La seconda…

[pausa, ndr]

C’è un film israelo-tedesco, del 2014, ‘Am Ende ein Fest’ [‘The Farewell Party’ in inglese, traducibile con ‘La festa d’addio’, ndr]. Racconta con grande ironia la storia di alcuni residenti di una casa di riposo che vogliono aiutare il loro amico malato terminale. Costruiscono perciò una macchina per l’auto-eutanasia. Al momento di metterla in funzione, salta la corrente. Ecco dove ho già visto qualcosa di simile a ‘Sarco’: in un film. Ma l’intera storia dell’uomo è costellata di invenzioni per aiutare le persone a suicidarsi.

C’è ancora un pensiero che vorrei esprimere: se ne parla e se ne scrive molto poco, ma a mio avviso è un aspetto essenziale.

Prego.

Quali sono i motivi che spinge chi aiuta qualcuno a togliersi la vita? Per farlo servono empatia, simpatia, compassione. Da sette, otto anni anche in Svizzera ci si chiede se persone sane debbano poter ricevere un aiuto al suicidio. A mio parere è qualcosa di inammissibile dal punto di vista morale.

Queste qualità le riscontra nella prassi delle altre organizzazioni che si occupano di aiuto al suicidio in Svizzera?

Ottima domanda! Lo spero, davvero. Ma se ne parla troppo poco. E qui torno al punto di prima. Una legge permetterebbe perlomeno di porre le domande che nessuno finora ha fatto: chi aiuta? Quante volte alla settimana? Perché? Con quale formazione? E con quale supervisione?

Chi è

Markus Zimmermann

Nato a Lahnstein (Germania) nel 1962, ha studiato teologia cattolica a Francoforte sul Meno e a Friburgo, ha lavorato come assistente pastorale a Berna, è stato insegnante di scuola cantonale a Willisau e docente e ricercatore presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Lucerna. Dal 2014 è professore titolare al Dipartimento di teologia morale ed etica dell’Università di Friburgo. Dallo scorso primo gennaio è presidente della Commissione nazionale d’etica in materia di medicina umana.

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