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La letteratura e la coesione nazionale

Con le sue quattro parlate nazionali la Svizzera è considerata un esempio virtuoso, ma l'idea di coesione pare più fragile di quanto faccia comodo pensare

In sintesi:
  • Qualcuno ha detto che gli svizzeri vanno d’accordo perché non si intendono fra di loro, dato che ognuno parla la propria lingua e non capisce le altre. Come ogni provocazione, questa boutade ha un suo fondo di verità di cui è bene tenere conto
  • La letteratura può avere un ruolo nel processo di consolidamento della coesione nazionale, anche per questo deve essere sostenuta, promossa, invitata a far conoscere e riflettere, incitata a favorire gli scambi
Plurilinguismo
(Keystone)
3 settembre 2024
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Fra i miti elvetici più resistenti e allo stesso tempo fragili nella sostanza va annoverato quello della coesione nazionale, cioè della convivenza pacifica di lingue, culture, tradizioni e percezioni differenti. Tanto è vero che, oltre che un laboratorio, la Svizzera, con le sue quattro parlate nazionali, viene considerata un esempio virtuoso. A guardare bene le cose, l’impressione è però che l’idea della coesione sia molto più fragile di quanto faccia comodo pensare, e serva da strumento di difesa per il benessere di cui godiamo e di autodifesa contro i timori che il mondo attuale, con le sue follie, ci mette addosso. Alla prova dei fatti questa coesione, che è la base del federalismo, sembra dunque essere piuttosto una coesistenza. Del resto la coesione, come viene intesa, non significa necessariamente apertura, conoscenza, dialogo, scambio, solidarietà vera; più semplicemente essa aiuta a vivere insieme senza dissidi. Non a caso ha detto qualcuno che gli svizzeri vanno d’accordo perché non si intendono fra di loro, dato che ognuno parla la propria lingua e non capisce le altre. La boutade va relativizzata, certo. Ma come ogni provocazione ha un suo fondo di verità di cui è bene tenere conto. Se gli abitanti del nostro Paese faticano a capirsi è per lo scarso interesse reciproco e per la poca volontà di riuscirci. Si aggiunga che la conoscenza reale fra le varie comunità sembra non andare oltre la superficialità e i luoghi comuni dell’esperienza turistica. Insomma, le svizzere e gli svizzeri vanno d’accordo, non per convinzione, ma perché gli conviene. Se però un giorno venissero a mancare il benessere e la sicurezza sociale, e si aggravassero le differenze di opinione nelle visioni politiche (le ideologie, il rapporto con l’Europa, l’atteggiamento da assumere di fronte alle minacce alla democrazia) anche la coesione potrebbe traballare e i problemi di fondo verrebbero allo scoperto.

Sappiamo che, davanti a un pericolo, una società può fare quadrato, per meglio difendersi. Succede però anche che essa possa indebolirsi, e magari sfaldarsi. Non avendo gli svizzeri una lingua comune, e non essendo l’inglese un’alternativa credibile, bisogna comunque pensare a una soluzione che può stare in una maggiore disponibilità a dialogare e nell’avere elementi seri, molto solidi, di discussione. In altre parole: i confederati non si conoscono abbastanza, e proprio per vincere questa debolezza strutturale dovrebbero impegnarsi a farlo. Allora sì che la coesistenza diventerebbe vera convivenza. E il federalismo sarebbe una parola, non solo bella, ma anche ricca di significati. Viene allora da chiedersi: come potrebbero migliorare il dialogo e la comprensione fra regioni linguisticamente, ma anche storicamente, molto differenti? Come continuare, pur perseguendo l’apertura verso il mondo, a vivere in uno Stato libero sì, ma veramente amalgamato? Le vie da percorrere ci sono. La Srg Ssr è chiamata a questo compito che potrebbe essere migliorato e allargato. Anche la scuola potrebbe fare la sua bella parte. Anche il giornalismo, se avesse più mezzi finanziari a disposizione.

Ignoranza reciproca e stereotipi

E la letteratura? Può avere un ruolo nel processo di consolidamento della coesione nazionale? Certo che sì. Anche per questo la letteratura (cioè la produzione creativa) deve essere sostenuta, promossa, invitata a far conoscere e riflettere, incitata a favorire gli scambi. E questo non solo all’interno delle singole aree linguistiche della Confederazione, ma soprattutto nell’interazione fra le quattro lingue nazionali. In questo ambito c’è davvero molto da fare, perché l’ignoranza reciproca è grande e gli stereotipi, che sono un ostacolo alla vera coesione, continuano a regnare. Affermare poi che la letteratura oggi non è più un fattore di comprensione fra le comunità linguistiche dato che il suo impatto è minimo, è, non solo limitato, ma anche sbagliato. Qualcuno, all’Ufficio federale della cultura, pensa invece che la letteratura non sia uno strumento di dialogo e di scambi, e quindi di comprensione confederale. Questo a causa del fatto che le sue forme di espressione sarebbero antiquate e che il suo impatto, confrontandolo con quello dei social, è numericamente limitato. La nostra società però non è fatta solo di cifre ma anche di valori come la tradizione, la qualità, l’impegno, il coraggio, la coerenza e la diversità. Così la decisione bernese, che fra l’altro vuole togliere anche il sostegno finanziario al giornalismo culturale (è il caso di «Viceversa Letteratura»), porta con sé delle conseguenze non solo molto pesanti ma anche ingiuste. A dire che la letteratura, nella sua nicchia, serve poco al dialogo e alla coesione nazionale sono a volte gli stessi che affermano che il giornalismo culturale non deve essere sovvenzionato. Probabilmente costoro pensano che il mondo viva oramai soltanto sui social e che qualsiasi alternativa puzza di vecchio o di conservatorismo. Se la democrazia è democrazia dovrebbe valere però anche il punto di vista di chi crede ancora in quella che da molti secoli viene chiamata letteratura e nella necessità di un giornalismo culturale che la legga, la discuta, magari la critichi, e che soprattutto aiuti a favorire un dialogo intellettuale e civile intelligente e creativo. Le conseguenze di questa visione, soprattutto perché arriva dalle istituzioni, sono doppiamente preoccupanti. Dal punto di vista delle minoranze questo è penalizzante. Ma lo è ancora di più per le maggioranze che possono naturalmente vivere della loro superiorità numerica. Così facendo non assolvono il loro compito federalista. Ci sono i pro e i contro, come dappertutto. Se è vero che la cultura è un fenomeno complesso e in evoluzione, e che pertanto essa va seguita, studiata, in tutte le sue forme, è anche vero che quando se ne parla occorre usare molta prudenza. Dire per esempio che le letterature svizzere non sono uno strumento di dialogo e apertura è un atto di libertà. Ma non è certo che corrisponda alla realtà delle cose. Il problema semmai è che le letterature svizzere sono difficilmente uno strumento di dialogo e di apertura al di fuori del loro ambito linguistico. È qui che bisogna lavorare, sostenendo le letterature e chi le produce, favorendo gli interessi comuni e le vere occasioni di dialogo. Perché la coesistenza elvetica diventi coesione, e la coesione si trasformi in vero federalismo.

P.S. Il testo che qui pubblico mi è stato commissionato da una Fondazione svizzera per la collaborazione confederale, finanziata dai 26 cantoni elvetici. Sarebbe dovuto uscire in italiano, tedesco e francese, nel blog di detta Fondazione, che mira a promuovere il dibattito sul federalismo. Purtroppo un paio di affermazioni blandamente critiche, ma pur sempre obiettive, nei confronti dell’Ufficio federale della cultura, peraltro freddo nei confronti dell’idea di aiutare il giornalismo culturale tradizionale, hanno indotto i responsabili a chiedermi di togliere un paio di paragrafi o di attenuare i toni. Giudicherà chi ha letto se sono venuto meno ai principi della garbatezza: girare intorno ai problemi serve però soltanto a chi non vuole risolverli. Naturalmente mi sono rifiutato di modificare il testo, che vuole essere un semplice ma chiaro invito alla riflessione. Per questo motivo ho chiesto ospitalità a questo giornale che ringrazio per averlo accolto. Ancorché a leggerlo saranno soltanto gli italofoni (RM).

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