Dopo quella sulla 13esima Avs, altra aspra contesa sul futuro del sistema pensionistico. Si vota il 22 settembre: risposte alle principali domande
Su che cosa votiamo il 22 settembre?
Su una riforma della previdenza professionale (vedi ‘Il glossario’ sotto per tutti i termini in corsivo), disciplinata dalla Legge federale sulla previdenza professionale per la vecchiaia, i superstiti e l’invalidità (Lpp). La revisione è stata adottata nel marzo 2023 dal Parlamento, che in precedenza aveva scartato un compromesso raggiunto tra sindacati e Unione svizzera degli imprenditori. Sindacati e sinistra hanno lanciato con successo il referendum. Se accolte, le modifiche dovrebbero entrare in vigore al più presto nel 2026.
Cosa prevede la riforma?
Il perno attorno al quale ruota è la diminuzione dal 6,8 al 6% dell’aliquota minima di conversione, ovvero il tasso che – al momento del pensionamento – viene applicato per convertire in rendita l’avere di vecchiaia accumulato durante la vita lavorativa. In questo modo però le rendite dei futuri pensionati subirebbero un calo del 12% circa. E la storia insegna: una diminuzione ‘secca’ dell’aliquota non ha chance alle urne (2010: 72,7% di no).
Sono state previste perciò svariate misure compensative, che consentirebbero – così scrive l’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (Ufas) – di mantenere “globalmente” il livello delle rendite (“in alcuni casi” la riforma potrà tradursi in rendite più basse, ammette lo stesso Consiglio federale: ce ne occuperemo in un prossimo approfondimento). In particolare: a lungo termine, il rafforzamento del processo di risparmio, grazie a una ridefinizione della deduzione di coordinamento che amplia la parte del salario assicurato e quindi fa lievitare l’avere di vecchiaia; a corto termine: supplementi di rendita, a beneficio di chi rientra nella ‘generazione di transizione’.
La riforma contempla inoltre un abbassamento della soglia d’entrata nel 2° pilastro, misura che – unitamente alla ‘nuova’ deduzione di coordinamento – è destinata a estendere e migliorare la copertura assicurativa dei lavoratori (per lo più donne) con salari bassi, occupati a tempo parziale e/o con più impieghi. Infine, una diversa graduazione degli accrediti di vecchiaia dovrebbe consentire di rendere ‘meno care’ sul mercato del lavoro le persone ‘over 50’.
Infografica laRegione
Un articolato pacchetto di misure per riformare la previdenza professionale
A cosa deve servire?
I due parametri in base ai quali viene stabilita l’aliquota di conversione sono mutati da quando questa è stata ridotta, tra il 2006 e il 2014, dal 7,2 al 6,8%. La speranza di vita continua ad aumentare, perciò le rendite devono essere versate sempre più a lungo. E il rendimento ottenuto dalle casse pensioni per i loro investimenti sui mercati finanziari è tendenzialmente in calo dall’inizio del secolo (negli ultimi 10 anni è stato in media del 3,5%): ormai non raggiunge più il 5% necessario per ‘sopportare’ un’aliquota del 6,8% (anche se dopo il -9,2% del 2022, lo scorso anno la performance media è stata del 5,2%). La conseguenza: per una parte delle casse pensioni – quelle che forniscono solo le prestazioni minime contemplate dalla previdenza professionale obbligatoria, o che assicurano prestazioni di poco superiori al minimo legale (previdenza professionale sovraobbligatoria) – è diventato almeno sulla carta più difficile finanziare le rendite (in realtà, come ha illustrato il ‘Tages-Anzeiger’, anche molte di queste avrebbero preso precauzioni accantonando da tempo le risorse necessarie per convivere con l’aliquota attuale). Un tasso di conversione troppo elevato le obbliga infatti a pagare agli assicurati rendite più alte di quanto in teoria sia disponibile. Per coprire questo deficit di finanziamento, che cresce a ogni pensionamento, le casse sono costrette a ‘prelevare’ denaro dagli assicurati attivi, attingendo ai rendimenti prodotti dai loro averi di vecchiaia. Solo così riescono a versare ai pensionati le rendite stabilite per legge: un finanziamento trasversale ‘occulto’, che erode le future rendite dei lavoratori; e che è estraneo a un sistema fondato sul principio di capitalizzazione, nel quale ognuno risparmia per accumulare il proprio capitale di vecchiaia.
Chi è interessato?
Nemmeno l’Ufas è in grado di dirlo con esattezza. Quel che è certo è che non cambierà nulla per chi è già in pensione quando la riforma entrerà in vigore. Anche chi (già oggi sono in molti a farlo) al momento del pensionamento rinuncia a una rendita preferendo ritirare l’intero avere di vecchiaia, o una parte di esso, sfuggirà agli effetti dell’abbassamento dell’aliquota di conversione, o ne attenuerà le conseguenze.
Le ripercussioni saranno impercettibili per la grande maggioranza dei lavoratori che beneficiano di prestazioni ben al di sopra del ‘minimo’ stabilito dalla Lpp (regime sovraobbligatorio). Le loro casse pensioni già oggi applicano un tasso di conversione (è del 5,3% in media, era del 6,1% dieci anni fa) inferiore a quello previsto dalla riforma: si sono adeguate con anticipo ai mutamenti demografici e socio-economici in corso, risolvendo il problema da sole, senza attendere il legislatore.
Invece, a percepire in modo diretto – in un senso o in un altro – gli effetti di quest’ultima saranno le lavoratrici e i lavoratori (così come i loro datori di lavoro) affiliati a casse pensioni che offrono unicamente le prestazioni minime previste dalla legge, o le cui prestazioni superano di poco tale soglia. Parliamo di un terzo al massimo (un 20% con una parte minima di ‘sovraobbligatorio’, più un 12% in regime esclusivamente obbligatorio) dei 4,6 milioni di assicurati attivi con una copertura del 2° pilastro, affiliati al 12-16% degli oltre 1’300 istituti di previdenza esistenti.
Chi ci guadagna? Chi ci perde?
Secondo uno studio commissionato da Alliance F, la più grande organizzazione femminile svizzera, circa 360mila persone (essenzialmente con redditi modesti e poco o per nulla assicurate alla Lpp, di cui 275mila donne) vedranno le loro rendite aumentare o ne avranno una (l’Ufas calcola che circa 70mila persone, in buona parte donne, potranno essere assicurate per la prima volta e che altre 30mila con più impieghi a tempo parziale avranno ulteriori redditi assicurati nel 2° pilastro); per contro, altre 170mila (di cui 67mila donne; soprattutto persone con salari elevati, in là con gli anni e assicurate solo in regime obbligatorio) subiranno una perdita a livello di rendita Lpp, nonostante le compensazioni previste. Per 336mila donne e 176mila uomini (e per i loro datori di lavori) le trattenute salariali aumenteranno.
Gli effetti della riforma dipendono comunque in ultima analisi sia dalla situazione personale degli assicurati (carriera professionale, età al momento dell’entrata in vigore, salario), sia dalla ‘politica’ della loro cassa pensioni. La ‘ministra’ della previdenza Elisabeth Baume-Schneider (Ps) consiglia a tutti, per raccapezzarsi, di leggere il proprio certificato Lpp e di chiedere alla propria cassa pensione di simulare le conseguenze dei cambiamenti previsti.
Chi è a favore? Chi è contro?
La riforma è sostenuta dal Consiglio federale e dai principali partiti di destra (Udc, Plr) e del centro (Centro, Verdi liberali). Sono spalleggiati dalle principali organizzazioni economiche: Unione svizzera degli imprenditori, Economiesuisse e Unione svizzera delle arti e mestieri. Anche Alliance F è favorevole. Schierati in prima linea per il ‘no’ sono i sindacati, il Ps e i Verdi. Dà loro man forte un’alleanza dell’economia capitanata da GastroSuisse e dal Centre patronal (l’associazione dei datori di lavoro della Romandia) e formata da otto associazioni di settori caratterizzati da salari bassi (panettieri e pasticcieri, parrucchieri, centri fitness e benessere, stazioni di servizio, bar e gastronomia individuale, commercianti di carne). L’influente Unione svizzera dei contadini (contraria alla riforma ancora durante i dibattiti in Parlamento) si astiene dal formulare una raccomandazione di voto.
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Perché votare no?