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‘Lady in the Lake’, un abisso senza tempo

Dall’omonimo romanzo di Laura Lippman, ispirato a fatti realmente avvenuti a Baltimora nel 1969, oltre la denuncia indignata del patriarcato (su Apple Tv)

A sinistra Mikey Madison (Judith), a destra Natalie Portman (Maddie)
(Keystone)
5 agosto 2024
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Baltimora, anni 60. Il personaggio principale ormai lo conosciamo a memoria: è la classica mogliettina dei sobborghi americani, sempre indaffarata, nervosa, insoddisfatta ma esteriormente impeccabile. Non ci sarebbe bisogno di presentazioni, ma eccone una efficace: quando Maddie (Natalie Portman) compra la carne per il pranzo del Thanksgiving, e il sangue che cola dal pacco le macchia il vestito giallo che indossa, entra in un grande magazzino e compra un altro vestito giallo. E visto che è finito prende quello della modella in vetrina, poco importa che sia una donna nera. Non sappiamo molto di lei, a parte il fatto che molti anni fa ha lasciato le sue aspirazioni da giornalista per crescere un figlio ingrato che oggi la odia – non si capisce perché, ma la odia davvero – e vivere con un marito che la rispetta solo in superficie. Quando una bambina scompare nel bel mezzo dei festeggiamenti cittadini Maddie vuole unirsi alle ricerche e l’egoismo del marito diventa intollerabile. “Tessie Durst è scomparsa e mi sembra sbagliato stare in cucina adesso”, dice Maddie. “Pensavo ti piacesse la cucina nuova”, risponde il marito. Non è passata neanche mezz’ora del primo episodio di ‘Lady in the Lake’ ma va bene così, come detto: non abbiamo bisogno di spiegazioni per stare dalla parte di Maddie. “Cosa sta succedendo esattamente?”, chiede il marito, mentre Maddie prepara le valigie. Lui (Brett Gelman, fantastico in ‘Fleabag’) non può capire, ma gli spettatori sanno benissimo cosa sta succedendo. Anzi, cosa è successo.

È successo che nel 2024, sessant’anni dopo il mondo in cui è ambientata la serie, le donne non vogliono più fare da cuoche/cameriere/infermiere ai propri mariti e ai propri figli. Le donne – anche le donne – vogliono avere uno scopo, cercare di dare un senso alla propria vita che vada al di là delle proprie funzioni biologiche e dei ruoli sociali tradizionali. ‘Lady in the Lake’ (di cui sono disponibili i primi quattro episodi su Apple Tv, con uno nuovo ogni venerdì) parte da queste premesse, mescolando la ricerca della realizzazione personale di Maddie – che nel giro di poche scene va a vivere da sola, si mette a fumare canne e si fa l’amante – alla trama di un giallo: chi ha rapito e ucciso Tessie Durst? È la stessa persona che ha ucciso la seconda vittima, Cleo Johnson?

Anche la storia di Cleo (Moses Ingram) è legata al tema più generale dell’indipendenza femminile. Giovane madre single afroamericana, Cleo lavora come modella nei grandi magazzini (è lei che si toglie il vestito per darlo a Maddie) e di notte nel locale del gangster di zona, cercando però di tenere lontani i suoi due figli da quegli stessi giri loschi a cui contribuisce. Uno dei figli, in realtà, è molto ammalato e Cleo è comprensibilmente disperata. Quando prova a sottrarsi a quel ricatto facendo volontariato in politica, si scontra con l’ipocrisia e la chiusura di un mondo tanto crudele quanto quello della droga e delle scommesse. “Finché i leoni non avranno i loro storici – dice la voce di Cleo all’inizio della prima puntata – gli eroi saranno sempre i cacciatori”. Inevitabilmente le loro storie si intrecceranno: Cleo diventerà la ragazza del lago e Maddie investigherà sul suo caso. Diventerà, in un certo senso, la sua storica.

‘Lady in the Lake’ è tratta dal romanzo omonimo di Laura Lippman, a sua volta ispirato a fatti realmente avvenuti a Baltimora nel 1969. Il romanzo è piaciuto molto a Stephen King che sul New York Times lo ha definito “speciale, addirittura straordinario”, proprio per come va oltre il semplice gioco investigativo per raccontare “l’abisso che esisteva allora tra ciò che le donne dovevano essere e quello che aspiravano a diventare”. Stephen King parla al passato, ma il fascino di questa storia, la ragione stessa per cui è stata adattata come serie, sta proprio nel fatto che quell’abisso per molte donne esiste ancora oggi.

Dire le cose come stanno

Le serie “a tema” sono sempre un po’ rigide, poco naturalistiche. I personaggi sono programmati per dire e fare cose che ci aspettiamo, senza quasi mai stupirci – forse per paura di confonderci. Una storia come quella di ‘Lady in the Lake’ rischia di diventare facilmente prevedibile: gli uomini sono tutti maschilisti, le donne povere vittime oppresse. Nella scena descritta poco fa, il marito non capisce cosa voglia Maddie, che gli dice: “Per te sono buona solo a fare la casalinga”. “Sei tu che non hai mai voluto fare altro”, risponde lui. “Non ho mai provato a fare altro!”, grida a quel punto Natalie Portman. Ma perché quella rabbia? Di chi è la colpa se non ha mai provato a fare nient’altro?

Non importa. Più che analizzare le relazioni e il sistema di complicità che ha reso possibile il patriarcato, sembra che il punto in questione sia dirle, certe cose. Chiare e tonde. La libertà di verbalizzare quei sentimenti che fino a qualche anno fa le donne non avevano neanche il diritto di provare (ma li provavano lo stesso, la frustrazione femminile non l’abbiamo certo inventata noi con la politicizzazione della parità dei sessi). Come sempre per capire qualcosa di più di un prodotto culturale, bisogna interessarsi a chi lo ha creato. La regista e showrunner di ‘Lady in the Lake’, Alma Har’el, pur avendo una cinquantina d’anni, è alla sua prima serie tv. Oltre ad alcuni video musicali per gruppi come Sigur Ros, Rolling Stones, Beirut e un lungometraggio su un concerto di Bob Dylan, nel 2020 ha curato il numero speciale del Time: 100 women of the year, che sta anche adattando per Amazon come serie antologica. Non ha grande esperienza nel cinema ma ‘Honey Boy’, il suo primo e finora unico film, è a suo modo vicino a ‘Lady in the Lake’. Anche in quel caso si parlava di sentimenti, di storie da far uscire per liberarsi di un fardello passato.

Il film del 2019 racconta come fiction la vera infanzia da bambino prodigio vissuta da Shia LaBeouf, con un padre fuori di testa che gli ha fatto da agente mentre lui recitava, e lo ha reso a sua volta rabbioso e dipendente dall’alcol. Shia LaBeouf interpreta il suo stesso padre, schiaffeggia il suo personaggio bambino e il film sembra una strana forma di terapia per lui (è anche la miglior interpretazione nella carriera di un attore che sembra confinato tra ruoli secondari in blockbuster coatti e personaggi semplicemente stronzi). Filtrata attraverso la lente di Alma Har’el, la storia un po’ triste ma tutto sommato normale di Shia LaBeouf, la confessione di un figlio maltrattato da un padre pazzo, diventa una storia poetica e universale, con una conclusione positiva, che mostra la possibilità di andare oltre il proprio trauma individuale.

Ha ragione Stephen King: è interessante che la storia di cronaca di due omicidi irrisolti abbia un senso più ampio e sociale, ma anche le storie individuali sono importanti. ‘Lady in the Lake’, con le storie di Maddie e Cleo raccontate in parallelo, specchiate l’una nell’altra, e una regia brillante, dinamica, elegante, onirica, vuole andare oltre la denuncia indignata del patriarcato. Sapere chi ha ucciso Tessie, come è finita Cleo in fondo al lago di Baltimora, come finirà a vivere Maddie lontana dal figlio e dal marito, non sono semplici dettagli all’interno di una storia più grande, di un meccanismo determinato. In fin dei conti sarebbe paradossale raccontare una storia di donne oggettificate dagli uomini, trasformandole a propria volta in oggetti narrativi, in simboli disincarnati. Non saprà bene contro chi dirigere la sua rabbia, Maddie/Natalie Portman, ma è dove quella rabbia la spingerà che ci interessa, sono le intuizioni che avrà e gli errori che compierà, che noi vogliamo vedere. Vogliamo sapere cosa ci farà con quella libertà che ha pagato a caro prezzo.