Alessandro Vanoli porterà, al festival Echi di storia, il suo monologo ‘Scusate… c'è uno storico in sala?’
Quando, in un film o (per fortuna più raramente) nella realtà, qualcuno chiede se c’è un medico in sala, vuol dire che le cose stanno andando male. Ma quella frase è anche l’implicito riconoscimento del ruolo, di fronte a problemi di salute, di chi ha studiato medicina. Non accade così per chi, invece, ha studiato storia: da qui parte il monologo autobiografico di Alessandro Vanoli che, domani sera allo Studio Foce di Lugano, concluderà la prima giornata di Echi di storia, il festival organizzato dall’associazione ticinese degli insegnanti di storia con un ricco programma di incontri e attività fino a domenica 9 giugno (info su www.echidistoria.ch). Il tema di questa prima edizione del festival è “coraggio” e Vanoli, oltre al monologo, terrà un incontro per le scuole sulla conquista del mare operata tra Medioevo ed Età moderna.
Esperto di storia mediterranea, Vanoli ha insegnato all’Università di Bologna e alla Statale di Milano. E non gli è mai capitato di sentire la domanda che dà il titolo al suo monologo, “Scusate… c’è uno storico in sala?”. «Intanto perché, per le cose che davvero servono nella vita, è sempre meglio chiedere se in sala c’è un medico oppure un idraulico» ci spiega scherzando. «Ma il tono scherzoso serve a introdurre quello che secondo me è un problema che riguarda un po’ tutti i miei colleghi: ci piacerebbe essere più utili di quello che attualmente ci sentiamo».
Perché ‘attualmente’? Prima era diverso?
Il monologo è il tentativo, seguendo un filo conduttore autobiografico, di capire che cosa è in questi ultimi anni, come è cambiato il nostro rapporto con la storia, perché non è più lo stesso di una cinquantina di anni fa. Ho 54 anni, il che mi permette di fare due conti sugli eventi che segnano che hanno segnato la mia generazione, dalla caduta del muro all’11 settembre e a certe grandi e piccole disillusioni.
Come guardiamo alla storia e a chi la studia?
Diciamo che in questi tempi difficili la storia è troppo facilmente utilizzata in maniera banale e poco critica per sostenere posizioni in modo violento. Si banalizza il passato per banalizzare, attraverso di esso, il nostro presente.
Perché la storia ha perso questa autorevolezza?
Sono tanti i fenomeni che hanno cambiato il posizionamento della storia: il discorso richiede, solitamente, un’ora di chiacchierata che è la durata dello spettacolo. Volendo riassumere cercando il più possibile di non banalizzare il tema, diciamo che è venuto progressivamente meno quel legame con la storia che ci faceva sentire parte di una comunità. Ed è venuto meno per tanti fenomeni che qui posso soltanto accennare, citandoli un po’ a caso: la globalizzazione, il fatto cioè che ormai il mondo, anche e soprattutto economicamente, ci assedia e ci obbliga a fare i conti con uno spazio molto più ampio; i nuovi media e la continua presenza della comunicazione e delle immagini, che fino agli inizi del Novecento erano rare, che impongono il presente come dato fondamentale; il mercato che richiama alla solitudine e all’isolamento del compratore. Questi fenomeni ci rendono persone sole e autocentrate che hanno bisogno di banalizzare e semplificare la realtà, il che è l’esatto contrario di quello che fa la storia: la storia ha bisogno di una forma di partecipazione collettiva e parte dal presupposto che le cose sono complicate.
Però la storia gode anche di una certa popolarità.
Certo, c’è una domanda di storia e questo, ad esempio, mi permette di andare in giro per teatri con il mio monologo. Ma ho l’impressione che molto spesso questa domanda riguardi soprattutto racconti edificanti ed entusiasmanti che sono certo interessanti, e ci mancherebbe altro, ma non sono il modo migliore di guardare al passato. La storia, quando funziona bene, invita a guardare il mondo attraverso la complessità e non la banalizzazione.
Ma, in concreto, in quali situazioni avrebbe senso fermarsi e chiedere se c’è uno storico in sala? Ad esempio in qualche dibattito politico…
Allora, tutte le volte in cui qualche politico rivendica troppo facilmente i confini o stigmatizza troppo facilmente un soggetto esterno qualificandolo come un nemico. Tutte le volte in cui guardiamo al passato pensando che le cose che viviamo oggi siano sempre state così. Tutte le volte in cui ci viene da buttare giù una statua, non perché le statue non debbano essere abbattute – la storia anzi ci insegna che è sempre accaduto – ma bisogna farlo avendo un’idea vera del motivo per cui lo fai. E, voglio dirlo senza sembrare troppo polemico, tutte le volte in cui ci viene da credere a delle facili stupidaggini sul passato, dagli alieni che hanno costruito le piramidi al fatto che non siamo mai andati sulla luna.
A proposito di statue: lo studio del passato come deve rispondere alle rivendicazioni contemporanee di maggiore inclusività? È una forzatura aspettarsi che la storia non tratti di ‘maschi bianchi morti’?
Mi raccomando, me la riporti bene questa risposta (ride, ndr). La prima cosa da dire è che non è vero che la storia la fanno i vincitori: la storia la fanno gli storici e, soprattutto dal Novecento, gli storici hanno imparato a non ascoltare solo la voce del vincitore. Quella del vincitore è spesso una voce di battaglie, di dinastie, di cronache di monasteri, di imperi, di re. È quella che i francesi chiamano ‘histoire événementielle’, la storia degli eventi, e che inevitabilmente diventa una storia di maschi bianchi morti.
Ma abbiamo imparato a cercare altre storie altrettanto importanti, le storie di persone apparentemente dimenticate, delle persone più deboli. E abbiamo imparato a usare altri tipi di archivi, altri tipi di fonti: abbiamo cominciato a guardare altrove, a mettere in discussione anche il nostro modello di storia che è fondamentalmente nazionale. Non guardiamo tuta la storia, ma solo quella piccola parte che consideriamo importante per noi: la storia che si studia in Italia riguarda l’Italia e pochi altri Paesi, ma non sappiamo nulla ad esempio della Polonia, della Russia o dell’Ucraina. Non sappiamo niente neanche della storia inglese, a parte le intemperanze sessuali di Enrico VIII, o di quella spagnola al di là della guerra civile incidentalmente conosciuta per ragioni politiche. E molto di meno sappiamo di un impero millenario come quello cinese, le cui dinastie sono assolutamente ignote noi, tranne forse la Ming per i vasi. Per non citare i Paesi a maggioranza musulmana che compaiono nei libri di testo solamente dopo i Longobardi per scomparire dopo Carlo Magno, quando incidentalmente diventano loro i padroni del mondo. Non sappiamo nulla dell’India o dell’America del Sud.
Questa storia non solo ha distolto lo sguardo da questi spazi esterni, ma anche negli spazi “interni” ha dimenticato tutte quelle persone che abbiamo deciso più o meno coscientemente di eliminare. Parlo degli ultimi, dei negletti come carcerati e malati o delle popolazioni non bianche. I tanti neri che erano presenti come schiavi ma non solo, perché erano presenti anche come diplomatici. E questo vale anche per i musulmani e per gli ebrei, ricordati normalmente solo nella Shoah, cioè il momento più devastante della loro storia, dimenticando secoli e secoli di storia di comunità spesso integrate che hanno contribuito alla società.
E naturalmente mancano le donne. Perché non ci sono, visto che il nostro passato è dominato da modelli patriarcali in cui le donne tacciono o sono messe a tacere. Ma come storici non possiamo partire dal presupposto che una cosa non c’è: dobbiamo chiederci come cercare tracce che sono state nascoste. Perché se non le cerco rischia di sfuggirmi la possibilità di vedere gli esiti più alti e migliori di un mondo più variegato. Posso farle un esempio personale?
Certamente.
Sono un fanatico di musica classica e mi vanto di avere una cultura musicale di tutto rispetto. Questa estate ho avuto l’opportunità di lavorare con alcuni musicisti internazionali, un’esperienza strepitosa. Una sera leggo il programma di sala: è tutto di Schumann e io sono contentissimo perché so che ascolterò della musica da camera meravigliosa. Leggendo “Schumann”, ho dato per scontato che ci si riferisse a Robert: solo dopo il concerto mi sono reso conto che uno dei brani era di Clara, di sua moglie Clara Wieck, probabilmente la più grande pianista di quel periodo. Ci ero cascato, pur avendo una buona conoscenza della musica classica: questo piccolo aneddoto dimostra quanto lavoro c’è da fare e quanto ci sia ancora da scoprire.
A Echi di storia lei terrà anche un incontro per gli studenti sulla conquista dei mari. Anche qui immagino ci sarà l’attenzione ad ampliare lo sguardo.
Nella vita abbiamo due o tre cose da dire e io ho questa: la convinzione che la storia possa essere guardata da punti di vista differenti e ho passato una fetta di vita ormai decentemente lunga a provare a dimostrarlo oltre che a raccontarlo – credo molto nella necessità della divulgazione, nel senso migliore del termine. E credo che il modo migliore per mostrare come la storia che ci appartiene sia una storia mondiale è il mare.
Il mare è sempre stata una barriera pericolosissima per moltissimi secoli, ma curiosamente è anche stato il più forte mezzo di connessione che gli esseri umani hanno avuto. Malgrado i rischi, il mare ha sempre funzionato meglio delle vie di terra: puoi trasportare più merci e più persone e quindi anche più conoscenze.
Il mare ci mostra che tutto è connesso. Faccio un esempio un po’ curioso che ultimamente hanno notato gli storici che si occupano di vichinghi (che in realtà sarebbe meglio chiamare norreni perché vichinghi è un termine spregiativo). La loro espansione verso ovest, verso la Groenlandia e l’Islanda fu innanzitutto dettata dal bisogno di cacciare trichechi perché con i trichechi si faceva di tutto, dal cordame delle barche all’avorio delle loro zanne. Ebbene, il commercio di trichechi, e quindi le avventure vichinghe, cessano intorno al 1200 nel momento in cui i genovesi trovano un modo migliore di trasportare per mare le zanne di elefante dall’Africa.