Torniamo su ‘Sculpting Time’, al Masi sede Lac fino al prossimo 6 ottobre, dove la scultura diventa poesia
Chi visita la bella esposizione che il Lac dedica ad Alexander Calder (1898 - 1976), magari senza neppure accorgersi, compie un viaggio attraverso lo spazio-tempo: comincia nella prima sala con opere degli anni 30, leggerissime e ariose, in fil di ferro, ma ancora statiche e poste su piedistalli lignei; entra poi nel grande salone, affollato del meglio delle sue opere realizzate nel decennio successivo, ma prive di basamenti e posizionate direttamente al suolo o affisse alle pareti o, ancora, agganciate al soffitto e che penzolano, si librano e muovono secondo i flussi d’aria; conclude infine, nell’ultima sala prospicente il lago con una grande, solida scultura del 1957, compatta e monumentale oltre che fortemente radicata al suolo, che spicca sul retrostante paesaggio lacustre.
Trent’anni circa di originale produzione artistica in cui si leggono soluzioni diverse, impostazioni che mutano, variazioni di materiali e di linguaggio all’interno però di un percorso che si percepisce profondamente unitario e che insegue la leggerezza, la mobilità e la freschezza di un medium – la scultura – per lunga tradizione rimasta statica, magniloquente, fondata sulla compattezza dei volumi. E che invece Calder svuota e azzera fin dalle sue prime “sculture disegnate in fil di ferro” come in ‘Croisière’, del 1931, dove c’è ancora tutta la tridimensionalità spaziale ma in assenza sia di massa che di peso.
Pur appartenendo ai suoi inizi, quelle sue prime opere sono comunque già esiti maturi in quanto avviano un percorso formale che si svilupperà poi con grande coerenza. Ma come è arrivato lì? Da dove viene quell’arte? È questa la domanda che torna nel retropensiero del visitatore: sull’onda di quali inclinazioni e attitudini personali, sia mentali che operative, o di quali stimoli derivanti dal contesto culturale e artistico del tempo. Che fa insomma a Parigi e chi incontra questo ventottenne americano della Pennsylvania, figlio di genitori che erano pure “artisti di formazione classica”, tra il 1926, quando arriva per dedicarsi all’arte, e il 1931 anno delle sue prime sculture non oggettive?
A questo riguardo c’è un aspetto che mi ha sempre stupito, lasciandomi sconcertato e affascinato a un tempo. Per evitare che come artista facesse la fame, i genitori lo inducono a coprirsi le spalle con un mestiere, cosa che lui fa nel 1919 conseguendo nientemeno che una laurea in ingegneria meccanica. Se non che invece di progettare macchinari complessi o sistemi industriali di produzione, una volta arrivato a Parigi (peccato che al Lac non lo si sia mostrato in video) crea con del filo di ferro e materiali di recupero il Circus Calder, cresciuto poi sull’arco di cinque anni, con animali, saltimbanchi e acrobati che, mossi da fili tirati a mano, danno vita a una rappresentazione, giocosa e surreale al tempo stesso. Messi in alcune valigie, diventano un teatrino portatile e itinerante con cui mette in scena spettacoli improvvisati, come quello fatto per Mirò e i suoi contadini. Una cosa fuori di testa, tanto più per uno che di professione è ingegnere meccanico. Ci si sente dentro un rovesciamento di posizioni ispirato da un libertinismo anarchico che trasforma la professione in un gioco irriverente contro il puro profitto e a favore della libertà creativa. Ma si badi bene: non è solo una componente caratteriale libertaria e ludica, è anche un’eredità dadaista che arriva a lui tramite l’amicizia con Marcel Duchamp e Jean Arp per fare solo due nomi. Vi si aggiunga l’amicizia con Ferdinand Léger e i Surrealisti, in particolare con Mirò.
Nelle sale del Lac
Tale suo atteggiamento ludico e questo suo interesse per il movimento diventeranno poi elementi fondanti della sua arte, spesso segnata pure da una nota giocosa, di stupore infantile. Come sottolineato dalla curatrice, “Calder ha creato organismi metallici che possiedono le qualità della leggerezza e della varietà in forme biomorfiche sottili, che sono allo stesso tempo resistenti e fragili, dinamici ed estetici, solidi e ipersensibili”. Lo aveva già evidenziato Fernand Léger nel catalogo della mostra dell’artista del 1931, alla Galerie Percier di Parigi, scrivendo che la sua arte “è qualcosa di serio nonostante non dia l’impressione di esserlo”. Non diversamente da quel suo celebre ‘Ballet mécanique’, un film in bianco e nero del 1924 che tanto aveva interessato Calder: con proiezione simultanea di frammenti visuali a ritmo accelerato e movimentazione delle immagini che entravano in scena da tutte le parti.
Ma la movimentazione delle immagini nel Cubismo e nel Futurismo con l’introduzione nell’ambito della pittura della quarta dimensione e cioè del tempo, l’atteggiamento ludico e la libertà inventiva, l’affondo nel Surreale e nelle profondità dell’io, la freschezza dell’arte infantile come dell’arte primitiva, il superamento del figurativo a favore dell’astrazione (da Kandinskij e Malevitch a Mondrian che eserciterà una grande influenza su Calder), le recenti sperimentazioni nel teatro e nel linguaggio cinematografico (da Hans Richter a Luis Buñuel e Salvador Dalí)… questi erano tutti temi centrali del dibattito artistico di quel tempo. Bisognava solo scegliere da che parte posizionarsi.
Non abbiamo tempo per soffermarci oltre, ma è in questo crogiuolo che egli matura. Camminando per una strada apparentemente fuori mano, in realtà Calder entra nel vivo di non poche problematiche del moderno che poi porterà a originalissima sintesi. È sarà tra i protagonisti del ’900 introducendo, con la mobilità, la dimensione del tempo nella scultura e portandola poi anche a esiti di indubbia poesia.
Calder Foundation, New York
‘Black Lace’, 1947