‘Calder. Sculpting Time’: al Masi, sede Lac, dal 5 maggio al 6 ottobre le opere di colui che ha introdotto il movimento nell’arte più statica
Partiamo dall’inizio, perché affascinati dalla storia. Il padre e il nonno sono scultori, la mamma è ritrattista professionista; nipote e figlio d’arte, il piccolo Alexander Calder ha come suo primo atelier il seminterrato del ranch di Pasadena, Arizona, dove la famiglia si trasferisce a inizio Novecento. Lì sotto, colui che un giorno introdurrà il movimento nella staticità propria della scultura produce ‘gioielli’ con i fili di rame recuperati in strada e le perline che arrivano dalle bambole della sorella. In ognuno dei successivi spostamenti, da Filadelfia a New York alla California e ritorno, i Calder destineranno sempre il seminterrato alla creatività del figlio, confidando parallelamente in una sua vita non d’artista, viste le difficoltà finanziarie che essa porta con sé da sempre. La laurea in ingegneria meccanica non fa di Alexander un ingegnere meccanico, l’esperienza come fuochista su di una nave è breve e così il lavoro come impiegato in una segheria. Alla fine, anche per tutta una serie d’innamoramenti visivi, vince l’arte: da studente alla Art Students League di New York gli viene chiesto di disegnare il Ringling Brothers and Barnum and Bailey Circus, denominato “il più grande spettacolo sulla terra”; il fascino del circo agisce in modo potente, ancor più su un giovane che già vive con l’imprinting prodotto, nei giorni di Pasadena, dalla visione del Tournament of Roses, una sfilata di carri allegorici e floreali che ancora si tiene in quella città ogni primo dell’anno.
Nel 1926 a Parigi nasce il Circo Calder, un circo in miniatura nel quale converge il grosso dell’interesse del suo creatore per le sculture in fil di ferro e per l’arte cinetica: realizzato con materiali di recupero, è riponibile in valigia per divenire spettacolo portatile e itinerante, da lui stesso tenuto. Nella capitale francese, Calder incontra gran parte dell’Avanguardia e la visita allo studio di Piet Mondrian lo spinge verso l’astrattismo; le sue prime sculture cinetiche attirano l’attenzione di Marcel Duchamp, che – in quanto mobili – le definisce ‘mobiles’; nel 1931, in occasione della mostra alla Galerie Percier di Parigi, così si scrive di quei mobiles nel catalogo: “È qualcosa di serio nonostante non dia l’impressione di esserlo”. Nel medesimo periodo Calder sperimenta sculture astratte autoportanti, che Jean Arp definisce – in quanto stabili, e in opposizione a ‘mobiles’ – ‘stabiles’. Negli anni 40 e 50 la popolarità dell’artista decolla internazionalmente: la Biennale di Venezia gli assegna il Premio per la Scultura nel 1952, all’inizio di un decennio nel quale Calder si concentra sulle sculture monumentali, come quella costruita per i Giochi olimpici di Città del Messico o quelle per il Festival dei Due Mondi di Spoleto e del JFK Airport di New York. Tra personali, retrospettive e commissioni molto originali – dipingere un DC 8 prima, un Boeing 727 poi –, tra mobiles e i giganteschi stabiles in lastre d’acciaio imbullonate che ancora oggi dominano le piazze pubbliche delle città del mondo, la carriera di Calder e così la sua vita continuano fino all’11 novembre del 1976, data di morte del 78enne artista, andatosene prima di avere completato un terzo aereo. Undici anni dopo nascerà la Fondazione Calder, che ne mantiene vivo il ricordo, il lavoro, ne tutela le opere e la loro esposizione e pubblicazione.
Luca Meneghel/Calder Foundation
Una veduta dell’installazione
Proprio dalla Calder Foundation, oltre che da importanti collezioni pubbliche e private, arrivano le oltre trenta opere di Alexander Calder datate tra il 1931 e il 1960, esposte al Museo d’arte della Svizzera italiana (Masi) sede Lac a partire da domani, 5 maggio. ‘Calder. Sculpting Time’, la mostra curata da Carmen Giménez assistita da Ana Mingot Comenge, si propone come la monografica più completa dedicata all’artista statunitense in Svizzera negli ultimi cinquant’anni. Alexander S. C. Rower è il presidente della Calder Foundation nonché nipote dell’artista, e al Lac introduce la mostra insieme a Tobia Bezzola, direttore del Masi, e alle due curatrici. Dalle parole di ognuno emerge quanto sia complicato esporre opere di Calder, ancor più in numero consistente come a Lugano.
Laddove il prestito si sia reso irrealizzabile per problemi di spedizione, installazione o altre/i paure e rischi annessi e connessi, la Calder Foundation ha ‘coperto’ l’ammanco con opere anche inedite, come un ‘Senza titolo’ del 1939 dalla forte spazialità. Atto dovuto, fa capire Rower, nei confronti di Giménez, che lascia la presidenza del Masi (che dallo scorso gennaio è cosa per Henry Peter) con la mostra affettivamente più vicina a lei: “Ho lavorato per così tanti anni, lascio Lugano per tornare in Spagna, felice del supporto della Fondazione Calder per questa esposizione che ritengo contenga l’essenza dell’artista. Calder ha accompagnato tutta la mia carriera sin dal 1993, dalla mostra da me curata a New York”.
Calder Foundation
Aluminum Leaves, Red Post, 1941, lastra di metallo dipinta
Mai, o quasi mai, presentazione fu così affollata. Osservati da occhi più attenti del solito, ‘vittime’ consapevoli e comprensive della comprensibile apprensione degli addetti alla sicurezza – in ballo c’è l’artistico e precario equilibrio di quanto esposto in uno spazio totalmente aperto – ci muoviamo tra mobiles e stabiles alzando la testa solo per un’ampia serie di ‘constellations’ che occupano, ad altezze variabili, tratti delle bianche pareti della sala. ‘Constellations’ è termine che proviene anch’esso da Duchamp insieme allo scrittore e curatore James Johnson Sweeney, ovvero i due curatori della retrospettiva dedicata a Calder nel 1943 al MoMA di New York. Queste costellazioni in negativo, fotograficamente parlando, sono di legno e filo metallico; la datazione, sempre il 1943, dice della scelta dei materiali, venuti a compensare la scarsità di lastre di metallo che la Seconda guerra mondiale portò con sé.
‘Calder. Sculpting Time’ si apre con le prime sculture non oggettive dell’artista, da lui denominate ‘densités’, ‘sphériques’, ‘arcs’ e ‘mouvements arrêtés’; sono l’anticamera di un floreale salone nel quale campeggia un ‘Eucalyptus’ (1940), tra i mobiles più importanti dell’intera produzione, presente nella prima mostra del 1931 e in gran parte delle successive; altre foglie, altri petali si aprono lungo il percorso: ‘Arc of Petals’ (1941), ‘Black Petals’ (1939) e un seducente ‘Aluminium Leaves, Red Post’ (1941), tra il jazzistico e il fantascientifico. Fino al conclusivo ‘Red Lily Pads’ (1956), che galleggia sulle nostre teste nell’ultima sala, comprensiva di una versione per interni delle grandi sculture di metallo e bulloni (‘Funghi Neri’, 1957). L’impressione, giunti in fondo alle sale, è quella di avere attraversato un grande giardino nel quale si muovono – usiamo le consone parole delle curatrici – “organismi metallici”, forme di vita assai vive come il ‘Little Parasite’ del 1947, che pare uscito da un testo di biologia illustrata. Il catalogo della mostra, al momento in viaggio verso Lugano, includerà anche il ‘piccolo parassita’. Per gli amanti dell’‘esperienza’, come si dice oggi, il giardino è aperto sino al 6 ottobre (www.masilugano.ch).
Calder Foundation
Alexander Calder, Constellation, 1943 - Legno, filo metallico e pittura