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La parità di genere non si limita al salario

La legge prevede la stessa paga per uomini e donne, ma nel privato questo non avviene e lo stipendio è solo uno dei problemi. Intervista a Ilaria Finzi

(Ti-Press)
15 giugno 2024
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“Torniamo oggi in strada, ma lo faremo anche in futuro. Perché la lotta contro il patriarcato è ancora lunga”. Da Ginevra a Bellinzona, lo sciopero delle donne è tornato a riempire le piazze. Decine gli eventi in tutta le Svizzera, e le rivendicazioni urlate a gran voce dalle donne (ma non solo).

Tra i temi toccati, la parità salariale tra uomo e donna. Abbiamo approfondito l’argomento con Ilaria Finzi, docente universitaria che si è occupata di discriminazione salariale di genere.

Che cosa si intende con parità di salario?

Inizierei da quello che stabilisce la legge. La Costituzione federale prevede, dal 1981, l’uguaglianza tra uomo e donna e anche il “diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore”. Nel 1996 si è inoltre aggiunta la Legge sulla parità dei sessi che si concretizza con la parità salariale che oggi possiamo considerare raggiunta, almeno tendenzialmente per quanto riguarda il settore pubblico. Nel settore privato purtroppo non è ancora così e rimane un 15-18% di differenza.

Come si misura la parità salariale? Quell’‘uguale valore’ indicato dalla costituzione potrebbe essere utilizzato per giustificare disparità in realtà dovute al genere?

Questo è un punto molto importante e anche delicato. Per valutare il ‘valore’ della persona dipendente si prendono in considerazione vari aspetti: la formazione, innanzitutto, poi l’esperienza professionale, l’anzianità e ovviamente anche il livello gerarchico. Il differenziale salariale di genere è quella differenza, nello stipendio tra uomini e donne, che rimane non spiegata tenendo conto di tutti questi fattori.

Per cui la disparità salariale, così misurata, non tiene conto ad esempio di una mancata promozione perché, a una donna più qualificata, è stato preferito un uomo.

No, questo fenomeno rientra in quello che viene definita la “segregazione occupazionale orizzontale”, in pratica il fatto che la presenza femminile non sia uniforme ma concentrata in alcuni settori. Si parla di segregazione orizzontale quando vediamo che determinate professioni o mansioni sono praticate soprattutto da donne e altre soprattutto da uomini: pensiamo, per i mestieri “da donne”, alle infermiere e alle maestre, mentre per quelli “da uomini” a muratori o meccanici.

C’è poi la segregazione verticale che invece riguarda le posizioni gerarchiche: più si sale nelle posizioni dirigenziali e meno donne si trovano. Sempre per capirci, tante dipendenti ma poche dirigenti e direttrici, perché appunto per una donna è più difficile ottenere queste funzioni.

La segregazione verticale è quella che spesso viene chiamata ‘soffitto di cristallo’?

Sì, il ‘glass ceiling’ come si dice in inglese: questa espressione indica una sorta di barriera difficile da superare, che rallenta la carriera femminile fino a limitare le posizioni apicali. Da un lato può essere spiegata per quelle donne che decidono di lavorare a un tempo ridotto, difatti l’idea di un top-manager che lavora al 50% non è molto percorribile nella società odierna. Risulta però non spiegabile quando le donne sono disposte a lavorare a tempo pieno

È interessante notare che la segregazione orizzontale deriva molto spesso dalle scelte delle donne su che lavoro fare o, da ragazze, su cosa studiare.

Scelta dovuta all’idea che esistano professioni, e percorsi di studi, maschili e femminili?

Questo è certamente un aspetto.

Sappiamo da diversi studi che i pregiudizi di genere sulle abilità di uomini e donne – l’idea ad esempio che i maschi sono più bravi in informatica o in matematica – scoraggiano certi percorsi di studio: sentendosi inadeguata, una ragazza che è brava in una “materia maschile” preferirà studiare altro.

Quindi una scelta individuale, ma guidata da pregiudizi e pressioni sociali?

Sì. Come dicevo ci sono diversi studi sul fenomeno e vari tentativi di limitare il peso di questi pregiudizi. In alcuni Paesi sono anche state create delle università femminili, per fare in modo che una ragazza possa studiare informatica o matematica senza avere il confronto con i compagni maschi, ma personalmente non sono sicura che sia una strada da seguire.

C’è comunque un altro aspetto del quale tenere conto, per quanto riguarda le scelte professionali femminili. Molto spesso le donne cercano lavori che possono essere svolti a tempo parziale, così da potersi occupare dei figli continuando comunque un’attività professionale: è una scelta legittima, e che del resto prendono anche alcuni uomini, ma che chiaramente riduce le possibili carriere lavorative visto che non tutti i lavori, e non tutti i datori di lavoro, permetto il tempo parziale.

Il tema della parità di genere qui si interseca con quello dell’equilibrio tra lavoro e vita privata – che riguarda tutte le persone, ma diciamo un po’ più le donne visto che tradizionalmente il lavoro di cura è affidato a loro.

Sì, da questo punto di vista il cambiamento non può limitarsi al luogo di lavoro, ma riguardare la società: come viene considerato, e suddiviso, il lavoro di cura? Come possiamo aiutare chi vuole lavorare e occuparsi della famiglia?

Tornando al luogo di lavoro: ci sono gli strumenti per contrastare la disparità salariale, ma cosa può fare un’azienda per la segregazione orizzontale e verticale?

Intanto va notato che la disparità salariale, nel settore privato, è ancora presente: ai livelli più alti, le poche donne arrivate in posizioni apicali ricevono stipendi leggermente inferiori a quelli degli uomini, (5-6%) e questo vale anche ai livelli più bassi, ma nella fascia media ancora adesso si registra una differenza di circa il 15-18%. Trovare degli strumenti risulta difficile.

Per quanto riguarda la segregazione orizzontale è la scuola e la società che devono lavorare in questo senso. Mentre per quanto riguarda la segregazione verticale la responsabilità ricade sul datore di lavoro.

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