Un galoppante singolo e altri successi in quattro decadi, tra vinili, cd e stream: Joey Tempest & Co. a Bellinzona il 29 giugno per Castle on Air
“Benvenuti nei leggendari Powerplay Studios, l’ambiente migliore per le tue produzioni a quindici minuti da Zurigo”. Nel 1986 non era questo il messaggio che appariva sul sito web dei noti studi di registrazione di Maur, a due passi dalla città sulla Limmat, anche perché nell’anno in cui gli Europe vi incisero ‘The Final Countdown’ nessuno al mondo, tanto meno uno studio di registrazione, aveva ancora un sito web. Il messaggio di benvenuto degli Studios è quello odierno e guardando gli interni della struttura – e una volta letti i nomi di chi da qui è transitato, da Keith Jarrett ai Backstreet Boys, dai Clannad ai Bon Jovi, da Randy Newman a Prince, da Shania Twain a Lady Gaga – altro non si può fare che immaginarsi Joey Tempest e connazionali mentre incidono la galoppante hit, n.1 in 25 Paesi grazie anche al suo epico tema tastieristico, e altri successi come ‘Rock The Night’, ‘Carrie’ e ‘Cherokee’, vetta di popolarità in una carriera condotta all’insegna della coerenza.
Nati con il nome non proprio epico di WC, mutato poi in Force, gli Europe diventano Europe grazie a un disco degli amati Deep Purple (‘Made in Europe’); il nome è scelto dal cantante e polistrumentista Joakim Larsson, che per dare piena internazionalità al gruppo – una volta imbattutosi in una copia della ‘Tempesta’ di William Shakespeare – fonde la tempesta col suo soprannome (Joe) per diventare Joey Tempest, sinonimo di voce cristallina e quasi fastidiosa avvenenza fisica, da cui l’espressione “arrivaci tu a sessant’anni bello come Joey Tempest”.
Manca giusto un mese. Per volere di GC Events, e con i Sinplus ad aprire, il 29 giugno la band svedese chiuderà Castle on Air 2024 a Castel Grande (www.ticketcorner.ch). In attesa di cantare nella Bellinzona di sopra insieme a John Norum (chitarre), Mic Michaeli (tastiere), John Leven (basso) e Ian Haugland (batteria), Joey Tempest ci parla da Stoccolma, tappa casalinga di un tour iniziato in Giappone e che toccherà Danimarca, Spagna, Portogallo, Norvegia, Polonia, Germania e Belgio. E Canton Ticino, dove gli Europe arrivano festeggiando un compleanno…
Cadono nel 2024 i quarant’anni di ‘Wings of Tomorrow’, l’anticamera della consacrazione: che importanza riveste questo album nella vostra carriera?
È un album fondamentale, mi ricorda che con Ian Haugland e Mic Michaeli abbiamo iniziato a suonare insieme quarant’anni fa e siamo ancora gli stessi. È una sensazione bellissima, ‘Wings of Tomorrow’ è un disco importante anche perché rappresenta il momento in cui abbiamo cominciato a scrivere canzoni, a fare prove e a tenere concerti in Svezia e Finlandia. Il 1984 è anche l’anno in cui siamo entrati in nuovi studi di registrazione guardando agli Stati Uniti, è stato l’anno in cui abbiamo incontrato nuovi produttori e la gente ha cominciato a reagire al suono internazionale che veniva da questa giovane band svedese.
Due anni dopo sarebbe arrivata ‘The Final Countdown’, uno di quei monoliti che spesso qualche artista, a un certo punto della vita, non vorrebbe più suonare. Qual è il vostro rapporto con la canzone?
Amiamo ancora suonare ‘The Final Countdown’, è un pezzo che unisce. Dal vivo la facciamo più heavy, e funziona sempre tanto nei festival metal che in quelli per famiglie. Nel 1986, quando uscì, eravamo già al terzo album, avevamo un produttore americano, un’etichetta americana (Cbs, ndr) e il sogno di suonare in giro per il mondo era diventato realtà.
La canzone ha avuto un destino comune a quello di ‘Jump!’: il riff di tastiera, in entrambi i casi, esisteva molto prima della composizione…
Sì, anche io come Eddie Van Halen l’avevo composto prima di scrivere il brano intero. Nel mio caso il tema esisteva già dai tempi della scuola, lo scrissi a 18-19 anni. Poi, quando andai per la prima volta in America per un viaggio promozionale, ascoltai alla radio ‘Jump!’ e pensai che fosse fantastica. In quegli anni c’erano altre band che integravano nel loro suono le tastiere, i nostri vicini a-ha per esempio, con ‘Take On Me’. Era un momento nel quale anche a una band come la nostra, fondata sulle chitarre, era finalmente consentito di unire sonorità tastieristiche. Per me la tastiera era un ingrediente in più, amavo il suono dell’Oberheim e altre macchine.
Quella di ‘The Final Countdown’ è anche una storia svizzera: un ricordo dei giorni nei Powerplay Studios?
Decidemmo di registrare a Maur perché il nostro produttore Kevin Elson era stato lì con un’altra band. Fu lui a suggerirci quel posto, perché a Maur non c’era vita notturna, la grande città era sufficientemente lontana e lui era sicuro che noi non avremmo esagerato con l’alcol, e nemmeno ci saremmo distratti correndo dietro alle ragazze. Eravamo giovani e un po’ pazzi, dormivamo nei Powerplay Studios e questa cosa fu utile a farci fare musica in modo lucido. Un altro ricordo che ho, più musicale, è che il suono delle tastiere in ‘The Final Countdown’, che nella demo era quello di una singola Korg Polysix, fu il risultato di undici tastiere collegate via midi, Ppg, Yamaha, Roland e altre. Kevin fu grande.
La musica ha classificazioni che fanno un po’ ridere. Chiamano ‘Yacht Rock’ quello degli Steely Dan, come se suonassero sempre in crociera; gli Europe sono ‘Hair Metal’, ma a parte cotonarsi i capelli, negli anni Ottanta senza il copia-incolla digitale e l’Autotune le band dovevano saper suonare per davvero…
… e anche fare tante prove, cosa che già facevamo da ragazzini. È vero, non avevamo Pro Tools, l’unica possibilità con la registrazione su nastro era al massimo trasferire parti strumentali o vocali da una traccia all’altra, ma non si sarebbe mai potuta alterare la performance. Volevamo diventare grandi musicisti, volevamo imparare a suonare i nostri strumenti al meglio, e per riuscirci andavamo a vedere gli show dei nostri idoli, Ritchie Blackmore, Michael Schenker, Gary Moore, tentando di capire come riuscissero a suonare ovunque nel mondo.
I progetti solistici dei singoli non hanno mai sciolto per sempre gli Europe. A conferma di ciò, nemmeno esistono vostre versioni alternative all’originale: cosa vi tiene ancora insieme dopo tutto questo tempo?
Può dipendere dal fatto che veniamo tutti dalla stessa piccola città (Uppland Väsby, sobborgo di Stoccolma, ndr), che andavamo insieme agli stessi concerti e agli stessi party. Tra noi c’è stato un legame sin dall’inizio e questo è servito molto. È più difficile fare gruppo quando vieni da posti diversi. Possiamo ritenerci fortunati.
Avete attraversato quattro secoli di musica: detto con la sintesi di un singolo, com’è stato il viaggio?
È stato un viaggio fantastico. Siamo stati parte degli ultimi giorni del vinile per poi vivere per intero quelli del cd, e dai Pro Tools years siamo entrati nell’era dello streaming. In un certo senso, abbiamo vissuto tutto quel che c’era da vivere, per capire alla fine che la musica dal vivo resta il momento più forte, più popolare, quell’esperienza che resta unica anche se il music business è cambiato completamente.
Per finire: qual è il segreto per scrivere la canzone eterna?
Potrei dire che è necessario che al suo interno non esista una parte brutta. Ogni sezione della canzone dovrebbe avere una vita propria, dovrebbe essere canzone a sé, dall’intro all’outro, dalla strofa al ritornello al bridge. Tutte le componenti dovrebbero avere grande valore: forse solo così viene la voglia di ascoltare una canzone senza ‘irritarsi’ mai…
Come eravamo