La Georgia vuole l’Ue, ma il suo governo nel frattempo strizza l’occhio a Mosca, pensando di trovare lì una soluzione semplice ai suoi problemi complessi
Sta andando in scena in Georgia l’ennesima puntata dell’interminabile serie “i problemi più complessi hanno soluzioni semplici, facili da comprendere e sbagliate”, una delle leggi a corollario di quella – ben più celebre – di Murphy, per cui “se qualcosa può andare storto, lo farà”.
Protagonista del capitolo georgiano di un principio ormai adottato a ogni latitudine – per cui il Covid non si debella con la ricerca, ma con candeggina (Trump dixit) e sterco di cavallo (copyright Modi), le crisi migratorie si risolvono chiudendo le frontiere (Le Pen, Salvini, ancora Trump...) e quelle economiche tagliando lo Stato sociale (tutti) – è il via libera del governo di Tbilisi al progetto di legge contro “le influenze straniere”, quello che impone a tutte le Ong e ai media che ricevono dall’estero oltre il 20% dei loro finanziamenti di registrarsi come “organizzazioni che perseguono gli interessi di una potenza straniera”.
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Il premier georgiano Irak'li K'obakhidze
Per chi la contesta è ormai la “legge russa”, perché riprende in copia-carbone quella che permette al Cremlino un controllo capillare su chiunque voglia tenere un piede in Russia. La Georgia ci è arrivata dopo aver flirtato a lungo con l’Ue fino a ottenere lo status di Paese candidato. Per l’avvio dei negoziati, previsti per ottobre, Tbilisi dovrà (dovrebbe) dimostrare di aver varato riforme per adeguarsi a una serie di requisiti che comprendono trasparenza, libertà di espressione e associazione, lotta alla corruzione e limitazione del potere degli oligarchi. La “legge russa” non solo va in direzione opposta, ma porta la Georgia dritta in braccio a Mosca. Possibile per un Paese che con la Russia ha fatto una guerra (nel non lontanissimo 2008) e che – sempre per colpa delle ingerenze russe – si ritrova a convivere con due Stati-fantoccio (Abkhazia e Ossezia del Sud)? Possibile.
D’altronde l’Unione europea – a sua tutela – pone una serie di riforme rigide e complicate, soprattutto per una democrazia giovane, instabile e permeabile alla corruzione come quella georgiana, che si sta rendendo conto che la strada verso Bruxelles, non solo è piena di ostacoli, ma ancora va costruita. Putin offre invece un’autostrada a più corsie: i giovani che sognano l’Europa e scendono in piazza non la vogliono percorrere, ma una politica incapace di pensarsi altro da sé la vede come la soluzione semplice ai suoi problemi complessi. Poi che sia anche sbagliata (per il Paese) interessa fino a un certo punto. Anche perché in cambio arriva il denaro degli oligarchi (c’è già una legge che detassa i movimenti delle società offshore) a riempire le solite tasche.
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‘Noi siamo Europa’
A preoccupare non è solo la Georgia. Tutta l’area degli “Stan” (Uzbekistan, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Turkmenistan) ha già varato le proprie “leggi russe” e limitato fortemente l’operato di sigle straniere. In Uzbekistan la maggior parte delle Ong esiste solo nominalmente o addirittura è diretta emanazione del potere locale. Chiaro che dietro agisca una spinta del Cremlino, che sta attirando a sé tutti gli ex Paesi dell’Urss (con le buone o con le cattive come in Ucraina). Resta da capire, almeno in Georgia, quanto il nazionalismo da quattro soldi propinato dal governo (con slogan come “In Europa, ma alle nostre condizioni”) possa fare presa su quell’80% del Paese che si è promesso all’Ue. Sembra tutto apparecchiato per andare storto. E com’era più? “Se qualcosa può andare storto, lo farà”.