laR+ IL COMMENTO

Giornalisti sotto tiro, anche lontano dai fronti di guerra

Il 3 maggio è la Giornata mondiale della libertà di stampa. Sulla professione incombono grandi insidie, persino nelle democrazie liberali

In sintesi:
  • Tre quarti dei giornalisti uccisi nel mondo nell’ultimo anno sono morti sotto le bombe o colpiti dai proiettili dell’esercito israeliano
  • Laddove il giornalismo investigativo è imbavagliato, privato di risorse o finisce nel mirino dei cecchini, a vacillare è l’idea stessa di giustizia
Issam Abdallah è rimasto ucciso lo scorso 7 dicembre in un attacco dell’esercito israeliano nel sud del Libano
(Keystone)
29 aprile 2024
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Su Julian Assange non sussistono molti dubbi: la sua notorietà potrebbe ormai rivaleggiare con quella di Lionel Messi o di Taylor Swift. Ma chi ha mai sentito parlare di Issam Abdallah? O di Ivan Safronov e di Vladimir Kara-Murza? Il primo, reporter dell’agenzia Reuters, freddato in un assassinio mirato dall’esercito israeliano nel sud del Libano. Gli altri due condannati dal regime russo a marcire in galera (rispettivamente 22 e 25 anni), accusati di tradimento. Non snoccioliamo altri nomi: la tetra litania sarebbe troppo lunga.

Stretta tra la Giornata mondiale del tonno (2 maggio) e quella degli uccelli migratori (8 maggio), quella della libertà di stampa (3 maggio) assume quest’anno i contorni di un monumento sepolcrale. Solo una cinquantina dei 200 Paesi al mondo può vantare un bilancio buono o soddisfacente. La tradizionale classifica stilata da Reporter senza frontiere (Rsf) è capeggiata come ogni anno da una manciata di Paesi scandinavi, seguiti dalla Svizzera. L’Europa, malgrado alcuni bruschi colpi di freno sul fronte dell’indipendenza e del pluralismo, rimane un baluardo per l’autonomia e la sicurezza dei giornalisti. In fondo, nelle ultime posizioni, troviamo senza alcuna sorpresa Russia, Iran, Cuba, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord: Stati liberticidi per ideologia politica o religiosa.

Israele figura in 88esima posizione, ma un aggiornamento in base allo stillicidio di morti ammazzati a Gaza la farebbe precipitare giù giù, nelle ultime bolge. Tre quarti dei giornalisti uccisi nel mondo nell’ultimo anno sono morti sotto le bombe o colpiti dai proiettili di Tsahal: Rsf e Amnesty International ne contano ben un centinaio, il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ne ha registrati 136. Un record. Hamas dapprima e Netanyahu in seguito, ci hanno proposto il loro Luna Park dell’orrore: ma il degrado non è misurabile solo in quella landa desolata in cui l’oscenità soffoca ormai anche le urla, i pianti e i gemiti, lasciandoci un disperato silenzio.

La libertà di pensiero e di stampa è un caposaldo della Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dalle Nazioni Unite nel 1948 (non a caso, tra i voti favorevoli non vi erano quelli dell’Urss di Stalin, dei sauditi o del Sudafrica dell’apartheid). A minacciarla oggi nelle democrazie liberali concorrono diversi fattori, come la concentrazione dei media nelle mani di conglomerati e colossi dell’economia e della finanza, dalla Holding Bolloré (Canal+, Cnews) al leader dell’aeronautica militare Dassault (Le Figaro) in Francia fino al magnate Rupert Murdoch nei Paesi anglosassoni (Sky, Wall Street Journal). Le altre grandi insidie oggi sono l’Intelligenza artificiale, il calo continuo delle risorse a cui è legato il sottile inganno della gratuità, la smisurata espansione dei social media che ci chiudono in bolle cognitive minando la credibilità del vero lavoro giornalistico, e la rimessa in discussione del servizio pubblico, garante contro gli interessi partigiani.

Il giornalismo, in particolare quello investigativo, come ha potuto spiegare in una recente serata pubblica a Lugano uno dei suoi massimi protagonisti, Gerard Ryle, è uno dei più preziosi strumenti della democrazia: laddove è privato di risorse, è imbavagliato o finisce nel mirino dei cecchini, a vacillare è l’idea stessa di giustizia. Anche se le Giornate mondiali assumono spesso i contorni di una stanca retorica, ci sembra utile ricordarlo.