Dai servizi segreti ai vertici dello Stato, il presidente ora punta all’eternità politica. Nelle periferie del Paese, però, i malumori aumentano
Vladimir Putin sarà presidente della Russia per altri sei anni. Un pensiero vale più di mille parole: la Costituzione russa stabilisce che il capo dello Stato non può svolgere più di due mandati, Putin sta entrando nel quinto. Vero che la presidenza Medvedev (2008-2012) ha interrotto la successione, ma Putin ha continuato a tirare le fila dello Stato come primo ministro e ha portato da quattro a sei anni la durata del mandato presidenziale. Vero che nel 2000 è stata approvata una riforma costituzionale e che si è ritenuto, per l’occasione, di far ripartire da zero il conteggio dei mandati del capo dello Stato. Difficile nascondere, però, che questi escamotage sembrano studiati per garantire l’incollamento alla poltrona di un presidente che si distingue sempre meno da un monarca.
Non sempre ricordiamo in quale Russia Vladimir Putin giunge ai vertici dello Stato, dopo una carriera come funzionario dei servizi segreti e di poco appariscenti amministrazioni statali. Nel 1996 Putin arriva quarantaquattrenne a un passo dalle stanze presidenziali, come dirigente dell’amministrazione di un Boris Eltsin ormai compromesso nella salute e nel credito politico.
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Il piccolo Putin, terzo da sinistra in basso, accanto alla maestra
Eltsin si ritira con qualche mese d’anticipo, lo annuncia il 31 dicembre 1999, nella tempesta. La privatizzazione dell’economia di Stato ereditata dall’Unione sovietica era cominciata male con Gorbaciov ed è proseguita peggio con lui. Gli oligarchi hanno accumulato ricchezze inaudite e comandano più del governo. In politica estera cominciano a radicarsi le dottrine che produrranno le invasioni di Georgia (2008) e Ucraina (2014, 2022). All’interno esplodono le tensioni etniche: i separatisti tentano di strappare a Mosca i territori a maggioranza musulmana del Caucaso settentrionale. Ci riescono in Cecenia, umiliando l’esercito russo e dichiarando un’effimera indipendenza.
In tutta la Russia, la popolazione, abituata alla vita grigia ma sicura che l’Unione sovietica aveva garantito fino ai primi anni Ottanta, sverna tra povertà e rabbia. Corruzione e crimine organizzato pervadono la società, in talune regioni pensioni e stipendi tardano mesi e “le persone cominciano ad avere paura l’una dell’altra”, denuncia lo scrittore Viktor Rozov nel suo intervento per il quinto anniversario della Fondazione Gorbaciov.
Vladimir Putin, uomo dei servizi segreti e indicato da Eltsin come proprio successore, sale al potere presentandosi come salvatore della patria e riesce a convincere molti di esserlo davvero. Spodesta gli oligarchi vicini a Eltsin, si distingue per la determinazione con la quale lancia l’esercito alla riconquista della Cecenia e stabilizza il Daghestan. I conti del Kgb tornano: Putin funziona. Né a lui né ai servizi segreti interessa che la Russia riprenda il cammino verso la democrazia e l’Occidente, interrottosi con le sbandate dell’ultimo Eltsin.
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Il giovane Putin durante un ballo scolastico
Putin lavora per ricostruire le strutture della Russia sovietica e imperiale, dirigere la macchina del Cremlino contro l’Occidente e attaccare il concetto stesso di democrazia. Agli oligarchi di Eltsin ne sostituisce altri, fedeli al nuovo corso. I conflitti etnici sembrano vinti, in realtà sono schiacciati dalla paura che Putin replichi altrove le distruzioni apportate in Cecenia e che oggi rivediamo in Ucraina.
La Russia di oggi è cambiata a fondo, da allora, ma è rimasta com’era. Quella che Putin riporta alla luce è la Russia zarista. Lo conferma lui stesso nel discorso con cui il 24 febbraio 2022 muove l’esercito all’attacco dell’Ucraina. Sconfessa persino Lenin, autore del federalismo sovietico, punto d’inizio, secondo Putin, dello smembramento dell’impero degli zar.
La recente morte in carcere del più noto oppositore russo, Alexei Navalny, fa pensare a molti che il regime di Putin sia ormai debole. È una tesi consolatoria poco utile. Se il regime fosse debole, non sarebbe riuscito a zittire Navalny, Prigozhin, Nemcov o Anna Politkovskaja; anzi, forse sarebbe già caduto. Se un potere compie questi atti è perché sa di avere presa sufficiente per reprimere la reazione popolare, che esiste, benché limitata alle parti di società attratte da modelli occidentali.
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Putin giura da presidente sotto gli occhi di Boris Eltsin, è il 2000
L’evento che più di ogni altro indebolisce Putin, in venticinque anni di comando, è il fallito golpe di fine giugno 2023. Lì si vede Putin vacillare davvero, come chi si trova d’improvviso al buio in una stanza sconosciuta. Due ingranaggi vitali della sua macchina si spezzano: l’uno è Evgenij Prigozhin, con il suo impero comprendente la milizia Wagner, costruito grazie al favore dello stesso Putin; l’altro è il generale Sergej Surovikin, sintomo di una fedeltà vacillante in settori dell’esercito. Bastano un paio di mesi, e nella stanza di Putin la luce si riaccende. Prigozhin muore in un “incidente” aereo e Surovikin viene ricollocato in posizione innocua, accettare o morire; altre teste rotolano, mentre al posto della Wagner subentrano milizie sottoposte al Ministero della difesa. La partita di Putin ricomincia.
Eppure, l’attualità russa è meno piatta di quanto sembri. Dal 2020 una serie di proteste scuote la città di Khabarovsk, a sostegno di Sergej Furgal, governatore locale. Furgal vince le elezioni regionali battendo il candidato gradito a Putin. Diventa subito bersaglio di azioni giudiziarie le cui motivazioni non convincono. La protesta perdura mesi e si organizza nel movimento «Siamo tutti Furgal», ma il governatore viene destituito per decreto e poi condannato. Il caso occupa ancora oggi la cronaca russa: a febbraio 2024 il movimento “Siamo tutti Furgal” viene censurato dai giudici come organizzazione estremista.
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Putin Eltsin, Gorbaciov e Breznev
Altro esempio sono le proteste in Baschiria, una repubblica a sud-est, ai confini con il Kazakistan. A gennaio di quest’anno migliaia di persone manifestano, sfidando la polizia e le temperature glaciali, contro l’apertura di un procedimento penale ai danni di un ecologista che protesta da mesi contro alcune attività che suscitano preoccupazioni ambientali, svolte dallo Stato russo nella regione. Il caso ricorda la protesta suicida di Albert Razin, nell’Udmurtia, poco lontano dalla Baschiria. Nel 2019 Razin si dà fuoco per protestare contro la politica linguistica del Cremlino, che penalizza la lingua locale, l’udmurto, come altre lingue regionali. Si tratta di proteste circoscritte, non sempre riportate dai media occidentali, ma tenaci. Rivelano un disagio strisciante su temi specifici e ricorrenti: le relazioni con le etnie non russe, le difficoltà economiche, una crescente insoddisfazione verso le prevaricazioni del potere.
Tra gli eventi più recenti si registrano ancora i moti scoppiati nel Daghestan dopo l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023: inauditi per gravità, proprio nel Caucaso musulmano, dove Putin si era imposto come uomo forte alla sua ascesa al soglio presidenziale. Negli ultimi mesi si è rafforzato un movimento di mogli di soldati in guerra, che promuove una coraggiosa protesta a viso aperto. Anche per effetto delle sanzioni occidentali, l’inflazione corrode gli stipendi in tutta la Russia.
Infine, due ignoti candidati alle presidenziali, Ekaterina Duncova e Boris Nadezhdin, hanno suscitato un consenso popolare inaspettato, prima di essere esclusi dalle elezioni con mezzi amministrativi. Il caso Nadezhdin attrae particolare attenzione. Analisti politici russi indipendenti, i pochi rimasti, ipotizzano che la candidatura di Nadezhdin dovesse fungere come quella di Ksenija Sobchak nel 2018: una figura d’opposizione apparente, senza prospettive di vittoria, utile a Putin per simulare un pluralismo elettorale.
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Putin pescatore
Nadezhdin, invece, non privo di esperienza politica, si è mosso di testa propria e ha mobilitato milioni di persone a suo favore. La sua candidatura è stata subito cancellata dalla Commissione elettorale, ma la sua storia è un altro indice che qualcosa si muove, sotto il gelo russo.
Il Cremlino ha liquidato il colpo di Stato di Prigozhin e non si lascia scalfire da questi movimenti. Li reprime senza difficoltà con arresti, intimidazioni, magheggi amministrativi e giudiziari. Questi scossoni, però, sono spie rosse che si accendono sempre più spesso, sul quadro comandi di Vladimir Putin, come il gran numero di persone che ha rischiato l’arresto, pur di partecipare alle esequie di Alexei Navalny e deporre un fiore in sua memoria.
La guerra in Ucraina, anche se non la si può nominare, è il chiodo dal quale pende ogni scelta politica, nella Russia di oggi. Dopo le umiliazioni subite dall’esercito russo nei primi due anni di conflitto, l’Ucraina ha fatto passi indietro e i russi hanno ripreso l’iniziativa.
Intanto, però, la marina ucraina ha reso di fatto impossibile a quella russa la navigazione sul Mar Nero e ha distrutto ormai una ventina di navi militari nemiche. Con i loro droni, gli ucraini riescono a colpire infrastrutture strategiche in territorio russo, anche in discreta profondità. Gli Stati Uniti sono in confusione, ma l’Europa sta riorganizzando il suo sostegno a Kiev. Né Putin può contare sulla vittoria né gli ucraini sono condannati alla sconfitta.
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Putin judoka
Resta un’ultima domanda: quale futuro per la Russia, alle soglie della quinta presidenza Putin? È la domanda dalla risposta più breve: il futuro non c’è. È assente dai discorsi del presidente, dalla narrazione bellica che pervade il Paese, dalle lezioni che i soldati con esperienza di combattimento in Ucraina tengono nelle scuole russe, per “educare” i ragazzini al sacrificio.
La Russia di Putin è rivolta a un passato che comincia dagli zar e finisce con la Seconda guerra mondiale. Domina lo spauracchio del nemico “fascista” descritto con una retorica anni Quaranta, identificato con tutto l’Occidente. Il futuro dovremo gestirlo noi, quando i ragazzini cresciuti in quelle scuole saranno i dirigenti russi con i quali dovremo confrontarci, se ancora nulla cambierà.