Mandato negoziale con l'Ue, dopo le parole di Vitta il presidente dell'Associazione interprofessionale di controllo Ambrosetti: ‘Numerosi i punti critici’
«Per il Ticino il mercato del lavoro diverrebbe un far west, passassero le rivendicazioni o le opposizioni poste dall’Unione europea la situazione peggiorerebbe drasticamente». È una bocciatura senza appello quella che Renzo Ambrosetti, già presidente nazionale del sindacato Unia e attualmente presidente dell’Associazione interprofessionale di controllo (Aic), dà al mandato negoziale con l’Unione europea, le linee guida che porteranno alle trattative tra Svizzera ed Ue dopo il fallimento dell’Accordo Quadro due anni fa. Il direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta, da noi intervistato venerdì scorso, è stato chiaro: nessun indebolimento delle misure di accompagnamento, e le peculiarità del Canton Ticino vanno salvaguardate difendendo salari, occupazione e concorrenzialità delle imprese indigene. E Ambrosetti, raggiunto da ‘laRegione’, concorda.
«Per il nostro Cantone sarebbe un disastro, il mandato negoziale per come è stato messo in consultazione non è assolutamente accettabile perché non difende né il Ticino né i salari o le aziende indigene in generale» rincara il già presidente di Unia. Che, confermando il secco no espresso domenica dal presidente dell'Unione sindacale svizzera Pierre-Yves Maillard, snocciola quali sono i punti critici, a partire «dalle spese di trasferta che sono un autentico vantaggio concorrenziale per chi viene da fuori, perché non sarebbero più riconosciute basandosi sul Paese dove si lavora ma su quello del Paese di provenienza della ditta: è una completa inversione di paradigma, perché è un principio a livello europeo, e pure tra Stati membri dell’Ue, quello del salario nel luogo di esecuzione. Per le spese si fa il contrario? Siamo fuori di testa?».
A preoccupare Ambrosetti è anche la questione della cauzione: «Abolirla non fa altro che non poter punire chi non rispetta le regole del gioco, le sanzioni emanate dalle Commissioni paritetiche devono essere pagate».
Inutile dire, ed era già un problema anche in passato, come al centro del dissenso ci sia anche la questione della competenza della Corte di giustizia europea che potrebbe fornire pareri vincolanti di fronte a questioni da dirimere: «È un aspetto ancora non chiaro – riconosce Ambrosetti, che però torna subito alla carica –: per noi è chiaro che un Tribunale europeo non può mettere il naso su misure d’accompagnamento volute dal popolo svizzero. Se esse siano proporzionali o meno è un nostro giudizio in base al fattore di rischio, non possono esistere tribunali europei che si antepongono alla nostra sovranità».
Cannoneggiato all’esterno, Ambrosetti ne ha anche per le questioni interne alla Svizzera. Già, perché le misure di accompagnamento si applicano solo nei settori laddove sia in vigore un Contratto collettivo di lavoro di obbligatorietà generale. Questi Ccl possono essere dichiarati oggi di forza obbligatoria quando un’associazione padronale ha un quorum superiore al 50% fra i propri aderenti del settore, e «da parte padronale c’è una questione ideologica: per loro più Ccl significa dare ancora più forza ai sindacati. Un autogol di prima categoria – commenta il presidente dell’Aic –, perché ad esempio con i distaccati come si farebbe a fare controlli come si deve? E anche il lavoro che svolge l’interprofessionale di controllo si applica ai settori con un Ccl di obbligatorietà generale e dove ci sono misure di accompagnamento. Di che controlli si andrebbe a parlare quindi, passassero le proposte oggi sul tavolo? Ne sarebbero svantaggiate oltre i lavoratori anche le ditte indigene, sottoposte alla pressione dei distaccati provenienti dall’estero».
Dal Consiglio federale Ambrosetti si aspetta «il coraggio politico di proporre al padronato una modifica al quorum necessario per introdurre un Ccl di obbligatorietà generale, che adesso a volte è davvero risicatissimo. In una fase così delicata sarebbe il minimo per garantire misure di accompagnamento in grado di salvaguardare davvero il tessuto economico e sociale ticinese ma anche di tutta la Svizzera. E poter ottenere un consenso popolare».
Le preoccupazioni di Ambrosetti sono in larga parte condivise anche da Nicola Bagnovini, direttore della sezione ticinese della Società svizzera impresari costruttori: «Pure noi siamo sulla stessa lunghezza d’onda – conferma a ‘laRegione’ –, siamo favorevoli alla libera circolazione ma pure alle misure d’accompagnamento. Abbiamo distaccati e ditte estere che arrivano a lavorare in Ticino, e finché ci sono i controlli (Bagnovini è segretario dell’Aic, ndr), si riesce a gestire la situazione. Senza queste misure saremmo impossibilitati a essere concorrenziali».
Ad allargare il compasso è Fabio Regazzi, presidente dell’Unione svizzera arti e mestieri che personalmente afferma di «condividere il discorso di Vitta in merito alle peculiarità del Ticino da salvaguardare», ma che l’Usam «deve fare un discorso a livello svizzero dal punto di vista degli interessi dell’economia nell’ottica delle Piccole e medie imprese». Ebbene, come Usam «evidentemente siamo favorevoli ad avere accordi ordinati e chiari con l’Unione europea – rimarca Regazzi –, perché spesso si sottovaluta il fatto che il 50% delle Pmi sono attive nell’esportazione». In secondo luogo, rileva il presidente dell’Usam e consigliere agli Stati del Centro rispondendo alle valutazioni di Ambrosetti, «un punto di frizione che abbiamo coi sindacati è che noi siamo favorevoli alla protezione del mercato del lavoro svizzero e riteniamo che bisogna mantenere il livello attuale di questa protezione, anche riguardo i salari. Ma siamo contrari a un ampliamento delle regole in vigore, soprattutto quelle interne. Non siamo d’accordo a concessioni su questo punto di vista, il livello di garanzia attuale va bene ma non andiamo oltre. Il discorso di rivedere il quorum non ci va bene».
Infine, per Regazzi, «in questa fase di negoziazione è controproducente e sbagliato che intervengano partner sociali e parlamento a dire cosa fare, cosa non fare, come farlo, come non farlo… dobbiamo rispettare i ruoli. Le negoziazioni sono compito del Consiglio federale, che ha ascoltato, e ora deve prendersi la responsabilità di condurre le trattative». Anche perché, conclude, «mostrarci divisi e con una pressione continua sul nostro governo sarebbe fornire un assist alla controparte, che capirebbe bene quanto il Consiglio federale possa essere sotto pressione e daremmo all’Ue un vantaggio importante».