Stando a uno studio dell'Università di Friborgo per Protezione dell'infanzia Svizzera, la violenza fisica e psicologica è nella vita di molti figli
In ogni classe di scuola c’è un bambino che subisce regolarmente violenza fisica dai propri genitori. È una media; ma ciò che in percentuale rischia di rimanere un dato astratto e spoglio di significato, con un esempio pratico assume tutt’altra forma e quasi se ne immaginano i tratti, di quel bambino cresciuto ed educato anche a suon di scapaccioni.
L’indicazione è riportata nella campagna di prevenzione con cui la fondazione Protezione dell’infanzia Svizzera aveva lanciato Emmo, pupazzetto di peluche per mezzo del quale i bambini possono mostrare le loro emozioni anche senza l’uso delle parole. Campagna che ‘risponde’ al quadro emergente dallo studio “Comportamento punitivo dei genitori in Svizzera”, eseguito periodicamente dall’Università di Friborgo. Dal 2017 l’analisi è condotta su incarico della stessa fondazione, ma indagini relative a questo argomento si svolgono da diversi anni: la prima risale al 1989; dal 2004 se ne occupa Dominik Schöbi (fino al 2016 su commissione dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali), professore ordinario al Dipartimento di psicologia dell’Università di Friborgo. Per l’ultima indagine, in ordine di tempo, resa nota il 31 ottobre sono stati interpellati 1’605 tra padri e madri: 1’305 avevano già partecipato ai sondaggi precedenti, 350 hanno risposto per la prima volta. «Si tratta di un campione ritenuto ben rappresentativo della popolazione di genitori in Svizzera», ci spiega Schöbi. Tra le misure più frequenti in ambito educativo usate dai genitori, è risultato che: un bambino su cinque è stato sculacciato, uno su dieci schiaffeggiato, il 15% dei genitori ha picchiato i figli e il 12% li ha tirati per i capelli (violenza fisica); un terzo dei genitori ha ferito i figli a parole o li ha rimproverati in malo modo, un quarto ha minacciato di picchiarli (violenza psicologica).
I dati sono ritenuti piuttosto affidabili, nonostante il tema delicato: perché ammettere di ricorrere alla violenza nei confronti dei propri figli può non essere semplice. «Gli intervistati sono stati selezionati tra le circa 150mila persone iscritte su Link Institute in modo anonimo – precisa il prof. Dominik Schöbi –. La garanzia di non poter risalire a qualcuno dalle risposte date, gioca a favore di una maggiore ‘onestà’ nelle affermazioni. Inoltre, a corredo dell’analisi, abbiamo condotto delle cosiddette scale di menzogna (volte a stabilire se ci siano indicazioni di asserzioni false), ma non è emerso nulla del genere. Rimane il fatto che, su un argomento così sensibile, non sia scontato che il quadro uscito corrisponda alla verità dei fatti. Al fine di avvicinarci il più possibile, a domande dirette (come “sculaccia spesso/quanto spesso suo figlio?”) affianchiamo domande indirette (“quando è stata l’ultima volta che ha sculacciato suo figlio?”) e tra le due tipologie di risposte non ci sono pressoché differenze. È comunque probabile che ci sia un certo margine di affermazioni non del tutto sincere; il che fa supporre una realtà un pochino peggiore rispetto ai dati». Analizzando i vari studi condotti, emerge un evidente calo dell’uso della violenza, in particolare fisica, dal 1989 al 2004 e in maniera ancora più chiara dal 2004 al 2017. Negli ultimi cinque-sei anni, invece, per quanto non si parli di una vera e propria inversione di tendenza, le cifre sono pressoché stabili.
Tra gli obiettivi dello studio, quello di individuare (se ci sono) le categorie in cui la violenza è maggiormente usata come metodo educativo. «Indicazione importante, al fine di sapere a quali tipi di famiglie rivolgersi con azioni di prevenzione». E le differenze sono di vario genere. «Una delle discriminanti per la violenza fisica è la condizione che potremmo riassumere come socioeconomica: i genitori con un livello di istruzione più basso e stipendi meno elevati, usano maggiormente schiaffi, sculacciate, percosse o altro. Non si parla di enormi divergenze rispetto ad altre categorie, ma è pur sempre una tendenza. Una discriminante invece molto chiara è quella secondo cui se mamma o papà sono stati vittime di violenza fisica da parte dei loro genitori quando erano bambini, o se sono stati testimoni di brutalità tra i loro genitori, c’è una tendenza evidente alla riproduzione di uno schema». Un’altra distinzione assai netta, «che diremmo culturale», uscita fin dai primi studi e confermatasi negli anni è che in Romandia i genitori ricorrono più spesso alla violenza fisica rispetto ai genitori di Svizzera tedesca e Svizzera italiana; mentre non ci sono differenze tra romandi e resto del Paese per ciò che concerne i maltrattamenti psicologici.
Minime, per contro, le discrepanze relative alle tipologie di famiglia. «Cito un paio di esempi: le mamme che si occupano da sole dei figli ricorrono con meno frequenza alla violenza, rispetto a ciò che succede nei nuclei in cui sono presenti entrambi i genitori; mentre laddove il numero di figli è più elevato, il rischio di soprusi cresce, vuoi perché più bambini significa più occasioni di conflitti e vuoi perché lo stress è più alto».
Il 38% dei genitori intervistati ha affermato di avere usato violenza fisica sui figli (il 6,2% regolarmente); il 21% dal punto di vista psicologico. Questi, insieme agli altri dati emersi dalla ricerca condotta nel 2023, non stupiscono più di tanto Regula Bernhard Hug, direttrice generale di Protezione dell’infanzia Svizzera. «Purtroppo – ci dice –. Avevamo constatato un aumento nelle famiglie in tempi di pandemia, durante la quale si erano ‘concentrate’ diverse di quelle situazioni che costituiscono fattori di rischio: preoccupazioni finanziarie o legate alla salute; forzata e prolungata convivenza in spazi magari ristretti o comunque limitati; difficoltà nel conciliare riunioni online e telelavoro in presenza dei figli e non sempre in locali separati. Insomma: un insieme di fattori non semplici da gestire; tanto più in una situazione di incertezza generale. Quel periodo ha interrotto la tendenza riscontrata negli ultimi anni, che era stata di un calo – leggero, ma pur sempre un calo – dell’uso della violenza nei confronti dei figli. Le cifre dello studio 2023 rimangono sui livelli degli anni condizionati dal coronavirus. Va detto che nel confronto con i Paesi che ci circondano, la Svizzera non è messa molto peggio. Il che non è di per sé una consolazione».
Un passo indietro che, per la vostra fondazione, comporta la necessità di ricominciare daccapo; o va ‘solamente’ dato tempo al tempo?
Non parlerei unicamente di passo indietro. Ricordiamoci che oltre l’80 per cento dei genitori intervistati ha risposto di non contemplare la violenza, fisica o psicologica. È una maggioranza rilevante ed è un’evoluzione tutto sommato recente. Per le generazioni precedenti, infatti, l’uso (anche) dei maltrattamenti come metodo educativo era ‘normale’, era un elemento culturale e in parte lo rimane.
Per le generazioni passate, come un genitore decideva di crescere un figlio, era ritenuta una questione privata? E lo è ancora oggi?
Sì. Tra i contrari all’introduzione di un articolo di legge che nell’educazione vieti il ricorso “a punizioni corporali e ad altre forme di violenza degradante” (cito la proposta di modifica in consultazione fino al 23 novembre), legge che riteniamo essere elemento fondamentale per tornare alla situazione pre-pandemia, quello che si tratti di una questione riguardante la sfera privata è uno degli argomenti maggiori.
Come si può cambiare un comportamento radicato nel tessuto culturale della società? La ‘sola’ via è la prevenzione, con campagne o altro? E basta, la prevenzione?
In 23 dei 27 Paesi dell’Unione europea esiste una legge che vieta l’uso della violenza verso i figli. Ebbene, numerosi studi condotti in quei Paesi hanno rilevato come se è in vigore una legge come quella che si vuole introdurre in Svizzera – purché accompagnata da azioni di sensibilizzazione, informazione e sostegno rivolte ai genitori –, il ricorso a metodi rudi diminuisce. Ciò dimostra l’efficacia di un’azione condotta su due fronti: da un lato l’accompagnamento e la prevenzione, dall’altro una regolamentazione. È fondamentale che le due cose vadano di pari passo.
Le campagne condotte da ‘Protezione infanzia Svizzera’ avevano prodotto effetti tutto sommato contenuti. Il che è un po’ frustrante; ma ogni passo avanti in questo ambito è ovviamente meglio di nessun passo. Per avere un’idea: un calo dell’uno per cento corrisponde a circa centomila bambini risparmiati. Non è poco. L’introduzione di una legge permetterebbe di raggiungere risultati migliori. Per i genitori sarebbe un’indicazione chiara di cosa si può o non si può fare. Un po’ come per un automobilista lo sono norme e segnali stradali.
Quali sono i motivi per i quali i genitori se la prendono con i bambini?
Stando a quanto emerge dallo studio, succede perché si sentono sopraffatti dalla pressione. A domanda su come spieghino il ricorso a comportamenti violenti con i figli, molti genitori rispondono di perdere il controllo a causa delle numerose sollecitazioni o preoccupazioni (problemi di lavoro o una relazione di coppia difficile, ad esempio) da cui si sentono schiacciati. Spesso, poi, basta poco: un bicchiere fatto cadere, un bisticcio tra due fratellini.
Tra le misure ritenute psicologicamente violente, lo studio menziona sgridare i figli. Basta così ‘poco’ (alzi la mano chi non l’ha mai fatto) per rientrare nella categoria di genitore con atteggiamento aggressivo?
Chiariamo: riprendere un bambino o un ragazzo, è necessario. Anche gli adulti provano delle emozioni ed è importante che possano comunicare ai figli quando sono tristi, frustrati o arrabbiati. Inoltre è essenziale, per i bambini in primis, che vengano posti loro dei limiti. Detto questo: si sfocia nell’abuso psicologico quando si perde il controllo della frustrazione o dell’arrabbiatura. Quando, cioè, si va oltre il ‘semplice’ sgridare (che, in sé, non è un comportamento violento e questo lo studio lo specifica in modo chiaro): quando si urla; quando il rimprovero è molto prolungato; quando si sminuiscono o si umiliano i figli con frasi come “non vali nulla”.